Dopo cent’anni Milano si è ricordata del futurismo: le celebrazioni dell’anno scorso e il Museo del Novecento di imminente apertura, con la sua nutrita sezione di opere futuriste. Certo, i musei non erano per nulla simpatici ai futuristi, ma ormai non sono più quei luoghi d’élite che dicevano di voler distruggere: “Sputare sull’altare dell’arte” per dare a tutti “la possibilità di pensare, creare, svegliare, innovare”. Marinetti però, il fondatore del movimento, dirà: “Il futurismo non è che l’elogio, o se si vuole, l’esaltazione dell’originalità e della personalità.Noi non bruceremo nessuna biblioteca, né inonderemo i musei”.
E il futurismo era proprio quello, un’accesa provocazione che voleva risvegliare l’Italia dal suo amore per l’arte languida e romantica, una sfida dell’uomo alla morale assennata, per riappropriarsi delle sue potenzialità e combattere “l’orrore del nuovo, il disprezzo della gioventù”, rifiutando la serietà, il romanticismo e la nostalgia, considerate come deformazioni della realtà, limiti all’esplosione del suo genio creatore. Dissero, provocatoriamente, di voler esaltare “il disprezzo per la donna”, intesa come simbolo dell’amore tradizionale, molle e romantico: questo, infatti, stereotipa la donna in una condizione di inferiorità e le impedisce di abbracciare il mondo moderno, nel quale volevano introdurre il diritto di voto e la parità assoluta fra i sessi. Un movimento rivoluzionario e democratico che ha dato inizio a tutta l’arte moderna, ma che per tanto tempo ha avuto su di sé una lunga ombra: solo dopo cent’anni, infatti, Milano si è ricordata di esserne stata il cuore pulsante. Ciò per la diffusa difficoltà di afferrare il senso delle provocazioni futuriste e soprattutto per colpa della vicinanza di Marinetti a Mussolini. Tanti uomini di cultura sono stati fascisti e poi sono stati riabilitati; Marinetti, invece, no.
Siamo un paese strano, non c’è dubbio: abbiamo avuto un Fanfani che firmò le leggi razziali e neanche dieci anni dopo fu autore del primo articolo della costituzione, dove si dice che siamo una democrazia, però definiamo mussoliniano un Marinetti che, seppur fascista di vecchia data, contro quelle leggi razziali fece una campagna su radio e giornali. Se per quella campagna fosse stato ucciso, oggi sarebbe un martire dell’antifascismo e il futurismo avrebbe un ruolo di rilievo nei nostri programmi scolastici. Ma Marinetti era simpatico a Mussolini, e non gli fu fatto niente. Ciò che gli mancò, dopo vent’anni di regime e davanti all’imminente rovina dell’Italia, fu la volontà di rinnegare tutto e di condannare il duce per come aveva ridotto il Paese: seguì infatti Mussolini fino a Salò, dove fu uno dei pochi confidenti rimastogli. Anche alla fine ebbe sfortuna: se fosse sopravvissuto al 25 aprile avrebbe potuto redimersi come tanti altri, invece morì 5 mesi prima, e per tutti rimase solo un fascista, con tutte le conseguenze che ciò ha implicato per il suo movimento.
Oggi ormai il futurismo è riabilitato, ma sono ancora tanti quello che lo vedono di cattivo occhio: è il nostro vizio di giudicare tutti secondo la parte politica a cui appartengono. Eppure Marinetti ha speso la sua vita per far sì che chiunque potesse liberarsi dalle convenzioni e dalle gerarchie, ha imposto il gioco spensierato contro la pedanteria accademica, ha esaltato la violenza distruttiva come punto di partenza per costruire un nuovo modo di pensare all’arte, che non deve più immortalare la realtà, ma eternarne il movimento che noi le imprimiamo, e ha agito per far sì che ogni giovane potesse essere libero di progettare il suo proprio modo di agire nel mondo: se poi è stato anche fascista, a chi importa?
Maurizio Chisu
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