4.563.000: una cifra, molteplici volti. E’ questo l’ammontare di stranieri che, secondo i dati Istat risalenti al 1° gennaio 2010, risiedono stabilmente in Italia, rappresentando il 7,5 % della popolazione totale. Una cifra esorbitante che necessita di una lettura più approfondita in vista dei nuovi e drammatici sbarchi di Pantelleria e Lampedusa ai quali siamo stati abituati negli ultimi due mesi.
Fenomeno relativamente recente, che ha assunto dimensioni significative nei primi anni ’70, qualificando nello specifico i caratteri della demografia italiana nei primi decenni del XXI secolo, l’immigrazione è al giorno d’oggi percepita quale minaccia e sede privilegiata di remore e contestazioni, nonché occasione di rivendicazioni xenofobe e misantrope. Insomma, lo straniero fa paura. Eppure pensiamo che la nostra patria si sia caratterizzata come un longevo e perenne Paese di emigrazione, allocandosi sul lato opposto, quello passivo, quello che subisce le rivendicazioni, quello dello “straniero che fa paura”. E le 24 milioni di persone che partirono fra 1876 e il 1976 sono state foriere di un nuovo conio: si parla oggi, in effetti, di “grande emigrazione” o “diaspora italiana”.
E’ proficuo analizzare le stesse rivendicazioni alla luce della politica adottata solo verso la fine degli anni ’70, quella che fu definita la “politica delle porte aperte” e che rese possibile un incremento senza precedenti dei flussi migratori in Italia. La medesima Italia che , oggi, rappresenta dunque un crocevia e un passaggio obbligato, essendo collocata nel cuore del Mar Mediterraneo. Ma gli stessi immigrati non vogliono restare qui: forse che percepiscano queste paure? O non sarà forse che cercano una sistemazione migliore? E certo, un Paese migliore c’è, un Paese che non sia tartassato dalla stampa e dai molteplici clamori di natura politico-gossippara (questo neologismo è sufficientemente consono?); un Paese in cui i prezzi della benzina non siano saliti alle stelle e nel quale si è prodotto un effetto del tutto paradossale: piuttosto che pagare, gli italiani, popolo di tradizionali ed irrinunciabili poltroni e di pizza e Coca-Cola davanti alla tv, hanno riscoperto la “gioia” del muoversi; un Paese che non subisca i postumi della crisi finanziaria che imperversano su gran parte dell’Europa; un Paese caratterizzato da una grande rivalutazione del cambio euro-dollaro e dal complesso di sacrifici che inevitabilmente accompagnano a braccetto la stessa popolazione.
Eppure, una prima regolamentazione dei flussi d’ingresso e una sanatoria per gli stranieri già stanziatisi nel territorio italiano si percepirono come assolutamente necessarie e la Legge Martelli del 1990 ne costituì lo sbocco più visibile. Di pochi anni più tardi, alla luce della prima “immigrazione di massa” proveniente dall’Albania, originata dal crollo del blocco comunista, è la Legge Turco- Napolitano, in funzione ausiliaria alla precedente, la quale istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanea (CPT, come si suole chiamarli più comunemente) per quegli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione, i quali provvedimenti con l’ennesima legge in materia, la Legge Bossi- Fini, risultano immediatamente praticabili da parte della forza pubblica. E quei CPT sono nell’ultimo mese diventati centri di accoglienza senza precedenti e, non riuscendo a contenere i sempre più numerosi flussi, sono stati qualificati come centri di costrizione ai lavori forzati, i nuovi “lager” in cui richiudere i popoli nordafricani in fuga dalla guerra civile o da una situazione di panico dettato dalla politica terroristica di un dittatore. Cosa fare, allora? Suonerebbero come rivelazioni shock le stesse che l’ex ministro leghista Roberto Castelli ha espressamente enunciato pochi giorni fa, il 12 aprile, ospite al programma di Radio2 “Un giorno da pecora”: “Bisogna respingere gli immigrati, ma non possiamo sparargli, almeno per ora […] Si risponderebbe con gli scudi e i manganelli, perché così si fa nei confronti di qualsiasi cittadino italiano che non rispetta le disposizioni dell’autorità di pubblica sicurezza”[…] Contro le Brigate Rosse, cosa abbiamo fatto?”. E non finisce qui. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca un paese di duemila abitanti sull’Appennino modenese, Montefiorino, che teme che la sua quiete potrebbe essere sconvolta dall’arrivo di soli due profughi nordafricani, che verranno accolti come prevede un piano concordato tra Regione e sindaci della zona.
Le Regioni hanno paura, paura di accogliere, paura delle conseguenze. E, nel frattempo, nuovi drammatici sbarchi attanagliano le coste siciliane. L’ultimo il 13 aprile, a Pantelleria, del quale sono rimaste vittime due giovani donne. Sono degni di nota, certo, ma non sufficienti, i nuovi centri di accoglienza, seppur nella forma di semplici tendopoli, installati a Manduria, in Puglia. E le Regioni del Settentrione? Eppure è esattamente il doppio la quota di stranieri residenti al Nord rispetto al Sud.
Nel frattempo un grande passo avanti si è fatto, certamente. L’emergenza e l’urgenza del fenomeno hanno spinto all’emanazione del decreto legge sulle “Misure di protezione temporanea per i cittadini stranieri affluiti dai Paesi Nordafricani”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 8 aprile. E’ stato in tal modo dichiarato lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale, individuando strutture di primo soccorso sul territorio e consentendo il rilascio di appositi e temporanei permessi di soggiorno della durata di sei mesi, purché lo straniero non abbia fatto ingresso nel territorio nazionale prima del 1° gennaio o successivamente alla data del decreto e purché non appartenga ad una delle categorie socialmente pericolose o non sia destinatario di un provvedimento di espulsione ancora efficace, notificato in data precedente al 1° gennaio 2011. E gli stranieri già in possesso di permesso di soggiorno rilasciato ad altro titolo possono chiederne la conversione in permesso di soggiorno per motivi umanitari. Insomma, la procedura è stata avviata e la corsa agli Sportelli Unici per l’immigrazione per ottenere il nulla osta allo svolgimento di un lavoro, previa verifica dei requisiti del datore previsti dalla legge, si è fatta incalzante. Il problema è che “… dopo l’ok dello Sportello Unico, la procedura si sposta nei Paesi d’origine, con il rilascio al lavoratore del visto per l’Italia”(è quanto sottolinea l’avvocato Mascia Salvatore). Ma poiché i tempi al consolato sono estremamente lunghi, la procedura si complica. E intanto la situazione rimane statica. Quali saranno le sorti di questa gente?
Un antico detto enuncia: meglio prevenire che curare. Ebbene, possiamo dire che noi italiani non sappiamo essere né grandi indovini, né qualificati medici.
Sara Tanieli
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