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Law

Giustizia ingiusta?

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Venticinque febbraio 2012: a seguito di una lunga querelle giudiziaria durata 5 anni, il reato di corruzione in atti giudiziari per il quale era stato imputato Berlusconi è prescritto.

La prescrizione è un istituto di favore previsto nel codice penale (articolo 157) che consente di estinguere il reato  decorso un determinato periodo di tempo, che corrisponde al massimo della pena edittale prevista per il reato per il quale si è imputati e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e quattro anni in presenza di una contravvenzione, pur se puniti con la sola pena pecuniaria. Ora, se la ratio del legislatore storico nel prevedere un istituto di questa portata si è orientata verso una duplice direzione (riduzione dei tempi processuali e corrispondente minor impiego di risorse giudiziarie verso reati commessi molto tempo prima nel tempo, da un lato, e garanzia per l’imputato, che evita così di ricercare fonti di prova a suo favore, più difficilmente rinvenibili con il trascorrere del tempo, dall’altro lato), gli effetti pratici e la portata applicativa di esso sono stati spesso paradossali e alquanto criticabili.  Noi italiani siamo stati abituati a parlare di prescrizione come argomento che costituisce il nostro pane quotidiano, al pari dello spread, e siamo venuti a conoscenza del suo significato-inutile sottacerlo- in particolar modo con i processi nei quali l’ex presidente del Consiglio è stato implicato. Allora ci si chiede: è la giustizia ad essere intrinsecamente ingiusta o il noto brocardo “La legge è uguale per tutti” necessita di essere rivisitato per adeguarlo alla realtà dei fatti?

 La questione implica il coinvolgimento di valori parimenti fondamentali, ma che subiscono una tale contrazione da allontanarsi irrimediabilmente dai principi originari in virtù dei quali erano stati pensati. Da una parte, ci si lamenta della lungaggine dei tempi processuali nei giudizi italiani e la prescrizione tende a risolvere questo problema; d’altra parte, il nostro è un sistema di diritto e, in quanto tale, garantistico rispetto all’imputato, considerato “non colpevole fino alla condanna definitiva”(ex articolo 27 della nostra carta costituzionale). Ipergarantistico, oserei dire! Un principio di tutto rispetto, non m’azzarderei a dire il contrario, ma che si scontra con altri istituti forse discutibili. E’ paradossale come una pena possa essere ridotta se il reato è stato perpetrato in stato di ira determinato da  fatto ingiusto altrui o quando l’azione è stata dettata dalla suggestione di una folla in tumulto. Se poi alle attenuanti generiche aggiungiamo le numerose misure alternative alla detenzione( notevolmente incrementate con la recente cd. “Legge svuota-carceri”), la buona condotta e  la sospensione condizionale della pena, giustizia è fatta. E il tono sarcastico è d’obbligo. Si discute notevolmente dell’oneroso sovraffollamento dei carceri, ma siamo sicuri che sia proprio questo il problema del nostro sistema? Non può forse esso essere considerato piuttosto come una conseguenza di un sistema giudiziario che non fa realmente giustizia? Garanzie per l’imputato, certo, ma  non al punto da consentirgli di ricommettere lo stesso o reati più gravi o, peggio, da rimanere impunito.

Parlando sillogisticamente, è scontato dire che si è perso di vista il principio cui si ispira il nostro ordinamento di civil law e che è tale da elevarlo rispetto ad altri ordinamenti più vetusti sotto questo profilo: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato in modo che possa essere reinserito nella società più “sano” e capace di non commettere più reati. Ma se il carcere lo si elimina, com’è possibile soddisfare una tale esigenza? Come sempre gli obiettivi si scontrano con i problemi: siamo alle prese con una “giustizia ingiusta” alla quale non è possibile porre rimedi?

Sara Tanieli

2 comments
  1. Lorenzo Azzi

    Ratio dell’istituto della prescrizione è, aggiungerei, il fatto che lo Stato non ha più interesse a perseguire il soggetto dopo che sia trascorso troppo tempo dalla commissione del fatto costituente reato, anche per il motivo che il trascorrere di un eccessivamente lungo periodo temporale rende assai improbabile/inutile il raggiungimento del fine primigenio della sanzione penale nel nostro ordinamento, ossia la rieducazione del colpevole.
    Ora, sulla legittimità o meno di tale istituto dal punto di vista sostanziale si può a lungo discutere, per quanto si ritenga usualmente che gli argomenti a favore siano (perlomeno quantitativamente) superiori a quelli contrari.
    La questione, però, andrebbe esaminata (soprattutto) dal punto di vista processuale. Anche perchè è lo stesso caso richiamato (Mills-Berlusconi) che si presta ad essere valutato da questo punto di vista: il reale problema non è l’esistenza dell’istituto della prescrizione quanto, piuttosto, l’anomalia italiana consistente nel fatto che la stessa, nel processo penale, continua a decorrere ininterrottamente anche dopo la sentenza di condanna di primo grado! Conseguenza di ciò è che l’imputato (e il suo difensore) tenterà in ogni modo di rendere il processo il più macchinoso e lento possibile, cominciando dal fare un uso strumentale dei mezzi di impugnazione. La ragionevole durata del processo ex art.111 Cost., in tal modo, sarà garanzia di tutti fuorché dell’imputato stesso, il quale avrà interesse, al contrario, ad un’irragionevole durata del processo medesimo, puntando alla prescrizione del reato.
    Questo è ciò che rende la giustizia ingiusta, per usare l’espressione dell’autrice.

    Non si comprende, inoltre, perchè nell’articolo si considerino paradossali circostanze attenuanti del reato quali lo stato d’ira e la suggestione, frutto di accurati studi e ricerche delle scienze sociali. Di questo passo, si rischia l’effetto “china scivolosa”, tale da giungere a sostenere di escludere l’imputabilità dagli elemnti costituenti la colpevolezza! Il ragionamento ellittico (“è paradossale…” e non si spiega il perchè) non può che essere fonte di fallacie argomentative.

    Tanto meno sembra condivisibile l’idea ottocentesca secondo cui non c’è rieducazione senza carcere. Per esempio, è ben noto l’ “effetto criminalizzante” delle pene detentive brevi (in particolar modo per gli incensurati), effetto che si cerca di evitare tramite l’applicazione di pene alternative alla detenzione. Ed è lo stesso sovraffollamento delle carceri, di cui pare non dolersi più di tanto l’autrice, che rende ancor più complesso raggiungere il fine, costituzionalmente garantito, della rieducazione del reo.

  2. Sara Tanieli

    Salve!
    Prima di accingermi a replicare al commento, terrei a sottolineare(e credo si evinca anche da quanto scritto nell’articolo) il profondo rispetto che nutro nei confronti di un ordinamento di civil law, qual è il nostro, frutto di accurati studi e profondi rivolgimenti che sono passati attraverso le garanzie costituzionali, superando vetusti “regimi” precedenti e giungendo ad assicurare un tale assetto normativo che non ha precedenti e che certamente non ha nulla da invidiare ad ordinamenti ad esso paralleli, ma contrapposti, quali quelli di common law. Ora, il punto è il seguente. Condivido esattamente ciò che dice Lorenzo nel suo commento: la prescrizione è un istituto rispettabile, che- ed è quanto ho scritto nell’articolo- se da un lato, è pensata per arginare la lungaggine processuale, per la quale l’Italia ha ricevuto numerose condanne provenienti dalla Corte di giustizia UE, dall’altro lato costituisce una garanzia per l’imputato. Tuttavia- ed è questo il punto che mi è sembrato opportuno sottolineare- l’istituto ha travalicato le sue funzioni originarie, ha oltrepassato, comprimendola in parte, la ratio per la quale è stato ideato, proprio in quanto( come sottolinea Lorenzo) l’imputato se ne avvale sempre più spesso quale strumento di “difesa” improprio, allungando i tempi processuali a tal punto da giungere alla prescrizione e sottrarsi alla condanna. E’ un effetto collaterale forse inevitabile.
    Per quanto riguarda il secondo punto toccato nel commento, non ho assolutamento criticato la previsione delle attenuanti generiche di cui il nostro ordinamento è fornito perchè la ratio delle stesse è sempre ispirata ad una condivisibile esigenza di tutela dell’imputato. Ciò che dal mio punto di vista sembra “paradossale” è il contenuto di due di queste: mi sembra quasi un ritorno al passato, ad un modello vendicativo(ispirato a sistemi di giustizia “fai da te” o, come più comunemente si usa dire, “occhio per occhio, dente per dente”) la giustificazione attribuita ad un reato che sia stato perpetrato in stato di ira o quando l’autore sia stato indotto o suggestionato dalla folla in tumulto. E sono state questioni che mi hanno suscitato delle perplessità anche nel periodo nel quale mi sono dedicata alla preparazione per l’esame di diritto penale lo scorso anno. Perplessità che sono suscettibili di critiche, certamente, anche alla luce della natura del mio articolo: un articolo fondamentalmente d’opinione e che non ha intenzione alcuna di scardinare istituti talmente radicati nel nostro ordinamento, come è ovvio! D’altronde, l’articolo 21 della nostra Carta costituzionale ci tutela nel nostro diritto di manifestazione del pensiero.
    Per affrontare, infine, l’ultimo punto, ribadisco ancora quanto detto nell’ultimo capoverso del mio articolo: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ora, che si tratti di pena detentiva o pena pecuniaria, questa è un’opzione che è spettata a priori al legislatore(scelta di tutto rispetto). La mia conclusione alquanto sillogistica vede come punto di partenza un’altra e differente prospettiva rispetto a quella messa in evidenza da Lorenzo. La “legge svuota-carceri” presuppone che i reati per i quali sono ora previste misure alternative alla detenzione siano stati astrattamente previsti dalla legge come punibili irrogando pene di tipo detentivo appunto. Da qui il mio commento: “come sempre gli obiettivi si scontrano con i problemi”. Perchè se il fine di questa recente legge è risolvere il problema del sovraffollamento del carcere, il problema della rieducazione rimane comunque. Se il legislatore aveva previsto per quei reati l’irrogazione di una pena detentiva, evidentemente li riteneva di una gravità tale da rendere inevitabile la misura carceraria ai fini della rieducazione. E’ questo l’aspetto che mi è parso di dover sottolineare. Che il fine della rieducazione debba essere raggiunto mediante la sanzione(si badi bene: non perpetua), sia essa di natura pecuniaria ovvero carceraria, siamo tutti concordi. Non c’è dubbio!Quale sarebbe la soluzione? Se la costruzione di nuove strutture detentive o la ristrutturazione delle attuali sembra essere una soluzione, sussistono tuttavia numerose altre questioni su cui dottrina e giurisprudenza divergono e si affrontano da sempre. Il problema non è si facile soluzione. E da qui nasce anche lo spunto per l’elaborazione del mio articolo.

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