Milano, novembre 2009. Delle telecamere comunali riprendono Lea Garofalo e Denise Cosco, madre e figlia, mentre passeggiano lungo Corso Sempione. Denise (all’epoca ancora minorenne) sale su un’auto, Lea continua a camminare lungo la strada. L’ultima immagine che si ha della donna la vede ferma sul marciapiede, mentre la stessa auto su cui era salita la figlia le si sta avvicinando. Le telecamere ruotano a trecentosessanta gradi, quando tornano al punto di partenza Lea non c’è più. Ciò che succede dopo è oggetto di un processo in corso: secondo le indagini Lea viene rapita da alcuni ‘ndranghetisti milanesi, fra cui Carlo Cosco, padre di sua figlia; viene torturata per ore, poi uccisa ed infine sciolta nell’acido.
Lea Garofalo era una testimone di giustizia: aveva coraggiosamente abbandonato la propria famiglia e iniziato a raccontare alla magistratura ciò che sapeva della ‘ndrangheta milanese (e non), rischiando la vita per dare un futuro di onestà e libertà alla figlia. Al centro di Milano, città in cui ancora nel gennaio 2010 il Prefetto Lombardi affermava che “la mafia non esiste”, si perpetra un atroce omicidio di ‘ndrangheta. Eppure la storia di Lea non fa notizia. Dopo qualche articolo sulle pagine di cronaca i maggiori quotidiani nazionali smettono di parlare di lei, la gran parte dei milanesi ignora il suo nome, e, malgrado il comune di Milano si costituisca parte civile nel processo, questo inizia nel silenzio e nell’indifferenza, come se riguardasse un fatto privato di una famiglia e non qualcosa su cui tutti dovrebbero interrogarsi.
La figlia di Carlo Cosco e Lea Garofalo, Denise, diciannove anni, costretta fin da quando era bambina a vivere in clandestinità con la madre, compie “una scelta di libertà interiore” (le parole sono della stessa Denise) e si costituisce parte civile nel processo per l’omicidio di Lea, accettando di testimoniare contro il padre. I Cosco e gli altri imputati cercano di schiacciarla sotto il peso di quella famiglia da lei tradita: Denise è sola, vive nascosta in un luogo protetto, ha pochissimi contatti con il mondo esterno. Loro invece sono uniti, si stringono le mani fuori e dentro le gabbie, ridono e vociano minacciosi contro di lei. Il coraggio di Denise, come quello della madre, sembra destinato a scontrarsi contro una forza più grande.
La storia qui però cambia. Alcuni studenti dei licei e delle università milanesi si interessano alla vicenda di Lea. Qualcuno fa parte di Libera, altri sono scout, altri vengono coinvolti da amici e professori: ciò che li accomuna è sentire una stretta al cuore quando pensano a Denise, loro coetanea, che testimonia in un’aula ostile contro il padre che le ha ucciso la madre. Decidono di non lasciarla sola: si recano alle udienze in cui la ragazza deposita, sventolano striscioni che la sostengono, fanno volantinaggio, fondano un presidio, protestano quando il processo rischia di essere azzerato perché il giudice che se ne occupa è chiamato a ricoprire un incarico al Ministero, gridano la loro indignazione quando nell’udienza del 27 febbraio scorso si esclude dall’imputazione l’aggravante mafiosa (considerando quindi l’omicidio di Lea un semplice delitto passionale). I primi a notare i ragazzi sono gli imputati del processo, che si chiedono infastiditi e sconcertati perché tutti quegli sconosciuti si interessino a Denise. Le loro voci arrivano poi fino alla stampa nazionale, ma, soprattutto, arrivano ai milanesi. Scrive infatti Marilena Teri, una dei fondatori del Presidio “Lea Garofalo”, che davanti al tribunale “tutti prendevano il volantino volentieri e nessuno lo ha buttato via, molti lo leggevano con attenzione e ci chiedevano informazioni e poi lo conservavano come se fosse una cosa preziosa.”. Anche Denise sente il calore di questi suoi nuovi amici e attraverso il proprio avvocato fa sapere loro che li considera la sua forza. Fioriscono iniziative per ricordare Lea e per sostenere Denise; da ultimo il 20 marzo scorso il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato all’unanimità una mozione in cui la Regione si impegna a sostenere gli studi della ragazza. Il tutto a dimostrare come sia in fin dei conti semplice per ciascuno di noi cambiare una storia, cambiare la Storia.
Prendi una canzone triste e rendila migliore. Prendi il sacrificio silenzioso di due donne, rimodulalo, riscrivilo, raccontalo, dai ad esso la potenza di un urlo che infrange i muri dell’indifferenza. Finiscila tu questa canzone triste, mettici una nota finale di speranza. La speranza che Denise possa avere il futuro che ha sognato assieme alla madre, che i colpevoli non rimangano impuniti, che il girotondo di amicizia con cui i ragazzi milanesi stanno circondando Denise continui ad allargarsi a dismisura, fino a ricomprendere l’intera Milano, una nuova Milano, che riconosce il cancro della mafia che cresce dentro di sé e si impegna a liberarsene, facendo sua prima missione quella ricerca coraggiosa di onestà, libertà e legalità che è stata ieri di Lea e che è oggi di Denise.
Rosaria Giambersio
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