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Ripensare la leva obbligatoria

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Oggetto del presente scritto è analizzare, da un punto di vista di filosofia morale, le due principali modalità per arruolare il personale militare. Parallelamente, proveremo a mettere in crisi due pilastri tra i più inossidabili dell’uomo occidentale moderno: il mercato e l’opposizione alla leva obbligatoria.

La prima modalità per arruolare il personale militare, nonché la più diffusa nelle democrazie occidentali contemporanee, è l’esercito di volontari. In tale ipotesi, è evidente, l’arruolamento viene lasciato nelle mani del mercato del lavoro: il servizio è svolto esclusivamente da chi vi ha previamente acconsentito, sulla base delle più varie considerazioni, tra cui, senz’altro, rientra il compenso previsto. Qui, lo Stato non si fa attore d’alcun intervento, se non nel senso che è pur sempre il datore di lavoro dei militari stessi.
Come si accennava sopra, una schiacciante maggior parte dell’opinione pubblica è favorevole a questa forma di arruolamento. Vediamo quali sono i due argomenti più importanti a sostegno di tale posizione.
Il primo è senz’altro un argomento che possiamo definire libertario: solo noi siamo proprietari di noi stessi. La leva obbligatoria è una forma di coercizione, di schiavitù che lo Stato impone in capo agli individui. Riconoscere allo Stato il potere di costringere i cittadini a rischiare la vita è la più alta espressione di un diritto proprietario esercitato dal primo sui secondi. E ciò, per una teoria libertaria, secondo cui lo Stato dovrebbe limitarsi a svolgere compiti minimi (imporre l’osservanza dei contratti, proteggere la proprietà privata dal furto, mantenere l’ordine pubblico), non è ammissibile.
Il secondo argomento è, se vogliamo, più raffinato. Può definirsi utilitarista: la leva obbligatoria diminuisce la felicità generale perché riduce il numero delle scelte a disposizione dei cittadini. Dal momento che il mantra dell’utilitarista benthamiano è “la massima felicità possibile per il maggior numero di persone”, è da preferirsi la via del mercato. Va detto, a mo’ di postilla, che la teoria utilitarista è spesso tale da poter sostenere, seppur con argomenti differenti, soluzioni opposte al medesimo problema. Ciò è conseguenza del problema di fondo di tale ideologia: la mancanza di un’unità di misura universale. Conseguentemente, potremmo utilizzare un argomento utilitarista per accordare la nostra preferenza alla leva obbligatoria (ad esempio, sostenendo che il mercato non sarebbe in grado di arruolare un numero sufficiente di militari, e ciò arrecherebbe un evidente svantaggio alla comunità, in caso di aggressione nemica).

Ora è il momento di soffermarci sull’altro polo della faccenda: gli argomenti a sostegno della leva militare obbligatoria. Anche in questo caso, struttureremo l’analisi in forma duale.
Il primo argomento in favore della leva obbligatoria ricalca una tipica obiezione al libero mercato: ossia, che tale aggettivo con cui abitualmente lo si qualifica non sempre sia giustificato. Perché le scelte che i soggetti compiono in un ambito di economia di mercato siano libere è necessario che le condizioni di partenza siano le medesime per tutti. Così, se alcuni membri della società, nati in condizioni economicamente disagiate, non trovano altre vie disponibili, è possibile che decidano d’arruolarsi, garantendosi in tal modo la sopravvivenza economica. Potrà allora ritenersi libera, siffatta scelta? O, perché tale qualifica (di libertà) sia giustificata, è necessario che l’individuo abbia a disposizione una gamma ragionevole di scelte lavorative dignitose tra le quali poter scegliere, ed opti per quella militare, per esempio, per spirito patriottico? La risposta a queste domande dipende dal concetto che si adotta di “libertà”. Adottando un concetto di libertà minimale, che pure è, allo stesso tempo, probabilmente il più diffuso, per cui libertà significa mera assenza di costrizioni, potremmo ritenere comunque libera tale scelta (nessuno mi costringe ad arruolarmi, per quanto le mie condizioni economiche siano cattive). D’altro canto, adottando un’idea più prettamente kantiana, più rigorosa, dunque, di libertà, saremmo portati alla risposta inversa.
Questo primo argomento a sostegno della leva obbligatoria non vale a priori, a prescindere, come si vede, ma, piuttosto, esclusivamente in una società con spiccate disparità, ove lasciare al mercato l’arruolamento finirebbe per assumere una connotazione di discriminazione classista (suffragata, peraltro, dalle statistiche, soprattutto con riferimento ai soldati semplici; meno con riferimento agli ufficiali).
Il secondo argomento è, probabilmente, più convincente. Anche questo può essere letto come una generale obiezione al mercato. E cioè – esistono beni che il mercato non può (meglio, non dovrebbe) comprare, in forza di loro peculiari caratteristiche? Il pensiero corre immediatamente ai dilemmi morali posti dalla vendita di organi così come dalla gravidanza surrogata a pagamento. Se è vero che affidarsi al mercato potrebbe garantire l’efficienza economica, non è altrettanto vero che una soluzione del genere sembrerebbe svilire il valore intrinseco dei beni succitati?
Tornando al servizio militare, esso si configura, evidentemente, come un dovere civico. Ci chiediamo, allora, se è giusto che l’adempimento ad un obbligo di un cittadino in quanto tale, in quanto consociato, debba essere lasciato ai meccanismi tradizionali che governano il mercato. In questo senso, potrebbe tornare utile un parallelismo con un bene della medesima sostanza, ossia con un altro dovere civico: quello di svolgere la funzione di giudice popolare in Corte d’Assise. Senza voler ripercorrere la disciplina specifica di tale istituto, basti dire che chiunque venga estratto da una lista comprendente un certo numero di cittadini (che comunque non hanno dato il loro consenso ad esserne parte) sulla base di determinati criteri ha l’obbligo di adempiere a tale dovere (le esenzioni essendo poche e circoscritte). Ebbene, ben pochi di noi si sognerebbero mai di affidare tale incombenza al mercato, creando un sistema di giudici volontari e remunerati. E ciò non tanto perché una soluzione di questo genere porterebbe, presumibilmente, ad una percentuale soverchiante di giudici popolari provenienti dai ceti meno benestanti (e ciò non è bene, dal momento che si presume che essi siano rappresentativi della società tutta), quanto piuttosto perché ci sembra (anche solo intuitivamente, forse) che l’amministrazione della giustizia nei tribunali sia una responsabilità da condividere fra tutti i cittadini (ovviamente, tale discorso ha forza ben maggiore in un sistema giuridico di common law, ove la funzione svolta dalla giuria è ben più importante e penetrante di quella cui siamo abituati noi). E un discorso simile, si badi, potrà farsi per il nostro caso: permettere di affidare un’incombenza come quella del servizio militare ad una sparuta minoranza di noi, pagandoli per far ciò, sembrerebbe corrompere gli ideali civili che dovrebbero guidare l’adempimento ad un dovere civico.
Nel Contratto Sociale (1762), Jean-Jacques Rousseau scriveva: “In uno Stato veramente libero i cittadini fanno tutto con le loro mani e nulla col denaro: anziché pagare per esimersi dai loro doveri, pagherebbero per adempierli di persona”. Prima di lui, Niccolò Machiavelli, che tanto ebbe a influenzare Jeremy Bentham nella fondazione dell’utilitarismo, criticò apertamente, nel Principe (1513), l’esercito di mercenari (la cui unica differenza rispetto all’esercito di volontari, si badi, sembra essere la nazionalità, fattore peraltro forse non così determinante, una volta che si sceglie di convertire un dovere civico in un bene commerciabile): “Se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro […] è che non le hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che uno poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che vogliano morire per te.”
Si tenga conto, infine, che affidare al mercato l’individuazione di quali soggetti siano, soli, tenuti ad adempiere al servizio militare per il bene della comunità tutta porta con sé una conseguenza altamente nociva. Trattasi di un problema di political accountability, di responsabilità politica, per l’appunto. Con ciò si vuol dire che il fatto di pagare un numero relativamente ridotto di nostri concittadini per mandarli a fare le nostre guerre, mentre tiene fuori dai guai il resto di noi, al tempo stesso crea una forma di alienazione, di dissociazione tra la maggioranza dei cittadini di una democrazia e i soldati incaricati di combattere in loro nome. Questo, a sua volta, rende decisamente meno gravosa, per l’organo di decisione politica di quello Stato (tipicamente, il Parlamento), optare per una scelta favorevole ad intraprendere una campagna militare. Bene ha detto, in questo senso, lo storico David M. Kennedy: “Di fatto, una quota maggioritaria, decisamente preponderante, di cittadini che non corrono il minimo rischio di dover sottostare al servizio militare, incarica un certo numero di concittadini, fra i più svantaggiati, di svolgere a pagamento alcuni dei compiti più rischiosi, e intanto quella stessa maggioranza continua a occuparsi delle proprie faccende, senza doversene distogliere né dover versare una goccia di sangue.”

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In questi termini, è chiaro che l’esercito di volontari sembra essere molto più vulnerabile alle critiche dei cittadini di una democrazia. Ebbene, questo era l’intento dello scritto, come dichiarato in partenza: porre il tarlo del dubbio con riferimento a questioni apparentemente non scalfibili da alcuna osservazione.

In definitiva, il tutto si risolve nel domandarsi se il servizio militare sia un dovere civico, che tutti i cittadini hanno il dovere di compiere, o un mestiere duro e rischioso come tanti altri, che deve essere opportunamente affidato alle dinamiche del mercato del lavoro. Per rispondere a tale quesito, d’altro canto, bisogna avere un’idea di quali siano gli obblighi che i cittadini di una società democratica hanno gli uni verso gli altri, e di come essi sorgano.

Lorenzo Azzi

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4 comments
  1. Annie

    Non ci saranno argomenti filosofici a sostegno della mia teoria, visto che i ragionamenti, di solito e forse peccando di presunzione, li costruisco da sola, ma pardon: me lo dici come fa, la parola “guerra” ad essere associata alla parola “democrazia” e alla locuzione “dovere civico”? Il dovere civico che ognuno di noi è chiamato a fare proprio e ad adempiere è, credo – forse illudendomi -, quello di camminare verso una società che non abbia bisogno di eserciti e di armi e di portarsi appresso quanta più gente possibile. E’ di affrontare un problema educativo e culturale enorme. Anche l’espressione “le nostre guerre” non mi appartiene ed è estranea al mio ridotto patrimonio culturale. La guerra non la faccio io, non la voglio e mi fa schifo il fatto che vengano spesi dei soldi per ammazzare. Se non ci fossero guerre, non ci sarebbero eserciti; se non ci fossero eserciti, non ci sarebbero guerre. Alla fine dei conti. In ogni caso, se l’argomento ti sta così a cuore, puoi sempre cominciare col dare il buon esempio.

    1. Lorenzo Azzi

      Premesso (banalmente) che si possono costruire ragionamenti da soli che siano, allo stesso tempo, supportati da argomenti filosofici, non vedo alcuna incompatibilità fra la nozione classica di “democrazia” e il concetto di guerra. Anzi, volendo, i due concetti vanno di pari passo, dal momento che la culla della democrazia, Atene, aveva un esercito formidabile, e su può dire che nella sua esistenza non abbia fatto che guerre.
      Il concetto puro di democrazia, di “governo del popolo”, è un concetto di forma, non di sostanza. Deve essere riempito. Di per sè, la democrazia non è altro che una forma di stato, e in quanto tale non è incompatibile nè con la guerra nè con la violazione dei diritti umani. La più celebre giuria della storia, nella sua assoluta democraticità, ha condannato Cristo alla morte.
      Altra cosa è sostenere che, tra le regole che devono riempire la nozione di democrazia, ci debba essere quella di ripudiare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, giusto per citare l’articolo 11 della nostra Costituzione. Questo, però, si badi, è un altro discorso.
      Il fatto che non sia tu personalmente a fare una guerra non toglie che tu faccia parte di una società, di uno Stato che è impegnato in guerre (che mi asterrei dal definire “umanitarie”, come si usa), a seguito di una decisione democraticamente presa da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta.
      Per quanto riguarda l’invito ad arruolarmi, non posso che suggerire di fare attenzione a non scivolare nella ben nota fallacia dell’ad hominem. Cerchiamo di “aggredire” l’argomento, non l’argomentatore, grazie.

  2. Davide

    Lorenzo, cosa ne pensi della Leva come alternativa militare alla formazione pubblica? Non vedendo una concreta utilita’ nella manutenzione (assai costosa) di Forze Armate in missioni “umanitarie”, si potrebbero utilizzare le strutture militari per una Leva che rasenti quasi il Servizio Civile, che abiliti il cittadino alla difesa del proprio Paese ma anche e soprattutto al rispetto dei valori che lo fondano. Una Leva quindi che, istruendo, fornisce ai cittadini una maggiore conoscenza, quindi capacita’ di scelta, e conseguentemente, in termini utilitaristici, un maggiore benessere. Da un punto di vista economico si potrebbe quasi paragonare questa mia proposta Leva come un “investimento di liberta'”, prima negata (arruolamento coatto) e poi restituita in misura maggiore.

    1. Lorenzo Azzi

      La principale debolezza della teoria utilitarista è che, abbracciandola, si può tranquillamente sostenere tutto e il contrario di tutto. Questo è dovuto al fatto che, per quanto arguti uomini di pensiero vi abbiano tentato per secoli, è semplicemente impossibile trovare un’unità di misura del benessere generale.
      Premesso ciò, la proposta di Davide potrebbe senz’altro essere accolta.

      Per altro, personalmente, per quanto conti, ero (quando ho scritto l’articolo) e sono tuttora contrario alla leva obbligatoria. Mi son ben guardato, però, dal farlo presente; se lo avessi fatto, non avrei raggiunto il mio obiettivo, che era quello di invitare a riflettere su posizioni che si considerano assodate e, in tal modo, correre il rischio di subire convinte critiche, come è regolarmente successo per via di Annie. L’amo ha funzionato.

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