Scopo dell’Università Bocconi è, almeno per i corsi di management, fornire a noi studenti una buona preparazione per il ruolo che in un futuro più o meno lontano ricopriremo in azienda – quello di manager. Tale obiettivo è raggiunto ponendo una grande attenzione alla qualità della didattica e stimolando quanto più possibile gli studenti a porsi domande e ad adottare un pensiero critico. Non ricordo tuttavia di esser mai stato portato a riflettere su una domanda basilare: i manager sono necessari? Ovvero, un’organizzazione ha bisogno di manager per poter funzionare? Su due piedi, più per lesa maestà che non per effettiva convinzione, verrebbe da rispondere di sì. Qualunque sia la tipologia di organizzazione che si sceglie di adottare (divisionale, funzionale, …), tutto ruota intorno ai manager, fulcro del processo decisionale e della direzione strategica dell’impresa. Tuttavia, alcuni casi aziendali mettono in dubbio tale certezza e con essa la nostra posizione nell’organizzazione aziendale del futuro.
Il primo esempio è quello di Valve Corp., startup nell’industria dei videogame, che si dichiara “boss free” dal 1996. Ognuno dei suoi 300 dipendenti ha la possibilità di proporre un progetto in cui crede e convincere gli altri a svilupparlo in team. Lo stipendio è definito tramite peer-evaluation (anche il CEO non ha stipendio predefinito e potrebbe, paradossalmente, non guadagnare nulla), mentre i licenziamenti, rari (a loro dire), vengono decisi da un piccolo gruppo di dipendenti nominati da tutti i lavoratori. Il mondo delle startup offre spesso grandi lezioni di management in quanto i suoi fondatori si dimostrano più inclini dei manager di aziende mature a mettere in discussione le strutture prestabilite (e a farsi fautori dell’evidence based management), ma restano sempre dubbi sulla possibilità di applicare tali modelli ad imprese di maggiori dimensioni.
Proprio per questo si rende necessario il secondo esempio, portato all’attenzione collettiva da Gary Hamel (2011) e riguardante l’innovativa gestione della Morning Star, azienda californiana che lavora pomodori all’ingrosso ed in scatola per grandi aziende, supermercati e ristoranti. In questa azienda ogni dipendente (inserito in una determinata funzione) deve definire all’inizio dell’anno la propria missione, ovvero il modo in cui pensa di contribuire alla mission aziendale di “fornire prodotti derivati dalla lavorazione dei pomodori e servizi che siano sempre al passo con gli standard di qualità dei clienti”. Definito il proprio obiettivo di massima, il dipendente è poi direttamente responsabile della realizzazione di questo e quindi anche di procurarsi autonomamente le competenze, le risorse e i contributi necessari. Inoltre, il singolo lavoratore deve anche concordare con i colleghi con cui ha più rapporti di lavoro (colleghi che, ad es., svolgono attività fortemente correlate) delle lettere di intesa in cui ognuno dei contraenti si impegna con obiettivi concreti a collaborare con il proprio collega. Per esemplificare, la mission di un tecnico dell’impianto di produzione dei pomodori potrebbe essere “produrre pomodori migliorando il grado di efficienza del processo”, mentre la lettera di intesa che esso firma con un collega del reparto vendite potrebbe essere “mi impegno a produrre ogni ora 100kg di polpa di pomodoro senza ritardi in modo che il collega del reparto vendita possa provvedere alla consegna.” Tutti i dipendenti possono spendere i soldi dell’azienda, ma devono sviluppare un business case che includa il rendimento dell’investimento e devono consultarsi con i propri colleghi. Eventuali conflitti vengono risolti nominando una terza persona che funge da arbitro e decisore imparziale, mentre i pochi casi di licenziamento vengono affrontati da un team di persone appositamente scelte per la loro reputazione. Il risultato è un sistema in cui non ci sono manager, o, per dirla con le parole del fondatore Rufer, un sistema in cui tutti sono dei manager, soggetti pienamente autonomi in ogni decisione. In un sistema di questo genere ad essere al centro è la reputazione del singolo: in mancanza di una gerarchia un dipendente verrà considerato dai pari importante se si dimostrerà capace di raggiungere i propri obiettivi, rispettare le lettere d’intento stabilite ad inizio anno e dare consigli sempre pertinenti ai colleghi in ricerca di confronto. De facto, in mancanza di una gerarchia formale, se ne sostituisce una informale basata sulla reputazione e ciò che ne viene è un’organizzazione estremamente flessibile. Se in un’impresa tradizionale un manager incapace continua a far danni finché non viene licenziato, in Morning Star esso perde gradualmente potere, in diretta correlazione con la perdita della propria reputazione. Alla fine dell’anno avviene una valutazione generale basata sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi unita ad una peer-evaluation, e lo stipendio viene determinato di conseguenza.
L’analisi di Hamel evidenzia anche i punti di forza e di debolezza di questo approccio. Sul fronte dei vantaggi si evidenziano:
- Costi più bassi: la mancanza di manager implica anche la mancanza dei relativi salari, con più soldi per finanziare la crescita (che in Morning Star è a due cifre, contro una media del settore dell’1%) e gli stipendi di tutti i dipendenti (superiori del 10-15% rispetto alla media dei competitor);
- Maggiore iniziativa: l’indipendenza porta i dipendenti ad un atteggiamento più propositivo;
- Maggiori competenze: se ognuno è direttamente responsabile di una mission (non di un singolo compito) sarà portato ad ampliare le proprie competenze per gestirla al meglio, andando a curare tutti gli aspetti del progetto e la sua implementazione;
- Maggiore collegialità: senza lo spettro delle promozioni (non c’è gerarchia) la competizione interna quasi si annulla e si afferma un atteggiamento di continuo confronto esclusivamente votato alla creazione di valore per l’azienda;
- Maggiore lealtà: a quanto pare il turnover dei dipendenti è molto basso, dimostrando un forte attaccamento per l’impresa e per la sua filosofia;
- Migliore gestione: facendo coincidere i ruoli di decisore ed attuatore per ogni decisione, le scelte diventano più rapide ed intelligenti.
Sul lato degli svantaggi si riscontrano:
- Pericolo di mediocrità: l’intero sistema si regge sulla spinta di tutta l’organizzazione verso la qualità, il che comporta che ogni singolo dipendente non deve esitare a richiamare i colleghi che violano missione e patti d’intesa presi. Se questo non avviene, l’autogestione genera prodotti di scarsa qualità;
- Difficoltà dell’adattamento: Morning Star segue una filosofia totalmente a se stante, tanto che il processo di assunzione è estremamente lungo al fine di verificare il più possibile la coincidenza tra persona e cultura aziendale. Generalmente, quelli che lasciano l’azienda sono spinti dalla volontà di una struttura più tradizionale, il che evidenzia quanto sia difficile abituarsi a questa modalità di gestione così particolare;
- Lenta crescita aziendale: un’organizzazione con una cultura così forte può quasi unicamente crescere internamente e le acquisizioni rappresentano una grave incognita proprio per la difficoltà di esportare la cultura di Morning Star;
- Nessuna tangibile crescita personale: senza una gerarchia manca la spinta a “fare carriera”, per cui i dipendenti potrebbero non essere soddisfatti sul fronte dell’autorealizzazione. Inoltre, senza titoli tangibili è difficile far valere la propria esperienza ad un successivo job recruiter.
Il vero interrogativo riguardo a queste tipologie di auto-gestione non sta nel capire se questo modello sia sostenibile o meno. Sebbene Morning Star non sia pubblica, l’azienda non solo conta 400 dipendenti e 700mln di ricavi all’anno, ma negli ultimi 20 anni ha anche finanziato la grande crescita esclusivamente con fondi propri, lasciando pensare che si tratti di un’organizzazione molto redditizia. Al contrario, il vero interrogativo è un altro: questo sistema è replicabile in un’organizzazione di maggiori dimensioni? Hamel nel suo articolo afferma che non vede motivo per cui non dovrebbe funzionare, anche se restano ampi interrogativi sulla difficoltà di replicare una cultura così caratterizzante e legata al suo fondatore. Personalmente, non vedo motivo di discostarmi da questo giudizio, soprattutto alla luce dei tentativi fatti da alcune grandi aziende in questa direzione. General Electric lanciò circa 20 anni fa un sistema di auto-gestione simile a quello di Morning Star in alcuni dei propri stabilimenti del ramo aviazione e ha registrato ottimi risultati, allargando gradualmente il progetto a 83 impianti per un totale di 26000 dipendenti. D’altro canto W.L.Gore (l’azienda del famoso tessuto Gore-Tex) ha applicato sin dalla sua fondazione una struttura incentrata sui team e sulla reputazione invece che sulla gerarchia. Alcuni studi recenti hanno dimostrato che questa organizzazione (definita “lattice structure” dal suo fondatore) è stata determinante non solo per raggiungere il successo, ma anche per continuare ad innovare (cosa forse ancora più difficile) in quanto garantisce ad ognuno la possibilità di partecipare al processo innovativo indipendentemente della propria posizione nella compagnia (Shipper, 1994).
Questi esempi si basano su aziende che hanno implementato l’auto-gestione con diverse gradazioni, che presentano modelli aziendali dotati di forti tipicità (tali da porre interrogativi sulla loro esportabilità) e quasi sempre guidate da “leader illuminati”. Tuttavia, questo non può distoglierci da un momento di riflessione. In un periodo in cui ci si interroga sulle basi del capitalismo e sul modo di fare impresa e si moltiplicano le esperienza positive legate ad una struttura collaborativa (una su tutte, gli applicativi “open source”), questa forma di impresa potrebbe rappresentare il futuro dell’organizzazione d’impresa. Se e quando questo momento arriverà, noi manager saremo ancora necessari?
Sergio Rinaudo
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