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Off Campus

Empire State of OBAMind

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7 Novembre 2012. Oggi è stato giorno di elezioni per gli Stati Uniti, e per New York City, dove vivo attualmente. E svegliandomi in questa città, piena, viva, arrogante, dove ancora faccio fatica a trovare il mio spazio, ho trovato cinque minuti per riflettere sulla mia impossibilità di votare, non essendo americana. Ho scoperto cosa vuol dire avere una voce che non può parlare, che non si sentirà quando stasera avrebbero contato i voti. Ho scoperto come avevo dato per garantito un diritto per cui i miei antenati hanno lottato perché io lo avessi, per cui le grandi donne prima di me hanno bruciato reggiseni in piazza perché io potessi oggi gridare a piena voce “ la mia opinione conta”.

E realizzando che per la prima volta dalla mia maggiore età non avrei potuto dirigermi a votare, mi sono sentita violentata, come se qualcuno avesse strappato via qualcosa che era mio per nascita, un mio diritto, una mia proprietà e che improvvisamente non era più. Ho avuto tempo di riflettere sull’idea di avere una bocca, polmoni, fiato ed una mente connessa ad essi che ora, per la prima volta, non avrebbe funzionato per contribuire a rendere questo mondo un posto migliore. Allora ho pensato: cosa posso fare per contribuire ad andare nella direzione che penso sia corretta andare? Sono uscita dal mio appartamento e mi sono fermata per parlare con ogni singola persona che ho incontrato nel mio cammino oggi, per far loro capire quanto fosse importante che andassero a votare, che era importante, che era importante per loro stessi, per me, per la nazione (qualunque essa sia) e per il mondo. E sento che nel mio piccolo, la mia voce s’è fatta sentire.

Ho aspettato sveglia la fine del conteggio del ballottaggio e appena Obama è stato dichiarato presidente degli Stati Uniti d’ America, ho cominciato a saltellare per l’euforia e ho realizzato che avrei dovuto condividere quella gioia che mi pervadeva dentro con chi sogna, urla, ama, odia, crea, distrugge, pensa, si sente come me. Ho preso la mia macchina fotografica e mi sono fiondata a Times Square, cuore pulsante della città. E avvicinando a quella magica piazza mi sono ritrovata a fianco gente che camminava nella mia stessa direzione, camminava spedita, come me, con gioia e determinazione, come me, tenendosi per mano e condividendo l’amore che c’è dentro di noi, direzionandosi verso la grande festa della città che non dorme mai, e che non avrebbe di certo dormito stanotte. Ho tirato fuori la mia reflex, ed è incredibile quanta materia viva c’era da immortalare. Adulti, bambini, giovani, bianchi, neri, asiatici, ispano -americani, donne, uomini, etero, gay, tutti uniti dallo stesso sogno. Da queste parti si dice che nessuno nasce a New York (un po’ come non esistono milanesi a Milano) , tutti vengono a New York perché hanno un sogno da inseguire, e non è mai stato così vero come stanotte. Times square era unita. Unita sotto i grandi schermi illustranti “Obama wins the election”.  E quando sei a New York, di certo non guardi i marciapiedi, guardi in alto. E tutti i visi stasera guardavano verso l’alto, illuminati sì dalle mille luci della città, ma anche illuminati da una luce che viene da dentro, da una luce più intima che urla speranza. Speranza che il meglio stia per arrivare, che domani è meglio di oggi, e meglio di ieri, e che si può cambiare , e che si può andare avanti. La gente urlava “forward”, ed è esattamente lì che stiamo andando.   Ho fotografato tutto quello che potevo, le luci, le scritte, i visi illuminati, la speranza, lo sguardo della felicità, famiglie unite, amanti che si baciavano, uomini che si tengono per mano, palloncini blu che volavano tra la folla. Ho fotografato per me, perché me lo potessi ricordare, perché un giorno potrò raccontarlo ai miei nipoti, e perché il mondo sapesse che cosa sta succedendo. Perché tutto l’idealismo accumulato sui libri di testo del liceo tra Dante e Montale avesse finalmente il marchio del “io c’ero”, perché i miei figli un giorno possano studiare sui libri di storia cosa sta succedendo questa notte. Ho fotografato finché le batterie della mia macchina fotografica si sono scaricate, e quando si sono scaricate, mi sono fermata. Ho sempre paura che le fotografie mi distolgano l’attenzione dal vivere veramente cosa sta succedendo, ed è stata una benedizione che si scaricassero in quel preciso momento. Ero da sola, in mezzo alla folla esultante, e non potevo smettere di sorridere, tanto che i muscoli del mio viso cominciavano a sentire la fatica di un sorriso sincero ed irrefrenabile. Mi sono sentita onorata di essere presente in questo posto e in questo momento, in questo preciso momento nella storia, ed in questo preciso posto del mondo, per vedere e testimoniare con i miei propri occhi la pagina della storia che stiamo scrivendo. Ero fiera di essere me stessa, e di essere lì, e che il mio volto, come quello delle altre migliaia di persone presenti a Times square, riflettesse la luce degli schermi raffiguranti Obama.

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C’erano tre gradi in piazza, e si moriva di freddo, tanto che non sentivo più le mie mani ed il mio naso, e non sapevo più se la mia faccia fosse paralizzata per la gioia che traspiravano i miei occhi ed il mio sorriso o semplicemente per il vento pungente, ma abbiamo aspettato insieme affinché Obama facesse il suo primo discorso da presidente rieletto. E mentre attendevo, la gente faceva foto, e urlava slogan tipo “fired up! Ready to go!” o “four more years” o “forward!”. E dietro di me alcuni ragazzi hanno cominciato ad urlare “U.S.A.”. E mentre mi sono fatta coinvolgere nell’urlare “Obama” con tutto il fiato che avevo in corpo, al suono di ‘U.S.A.’ mi sono fermata e sono rimasta in silenzio. Ho sentito che la mia natura italiana non mi permetteva di urlare con onestà “ I’m proud of being American, I love this country”, semplicemente perché non lo sono. Per quanto non si possa definire la vera natura dell’ “essere americano” e di questa America che non è altro che un gigantesco “melting pot”, so, dentro di me, di non appartenere a questa cultura, per quanto possa amarla.

Allora, mentre ancora guardavo con ammirazione il nostro nuovo presidente (perché Obama è un po’ il presidente di tutti quando lotta per i diritti delle persone, quando lotta per i nostri diritti) che diceva “We believe in a generous America, in a compassionate America, in a tolerant America, open to the dreams of an immigrant’s daughter who studies in our schools and pledges to our flag”, ho pensato ai miei amici. Ho pensato a Claudia, e Max, e Giulia, i miei Bocconiani, con cui ho condiviso tante avventure nel nostro ateneo, nella nostra Bocconi, nella mia Bocconi. Ho pensato a loro, a noi, e ho tanto desiderato che fossero con me questa sera in piazza, a guardare con orgoglio un presidente di cui andare fieri. Di cui dire “yes, that’s my president”. L’ho desiderato per me, per loro, per i miei genitori che si spaccano la schiena per pagarmi gli studi e che dopo 40 anni di lavoro ancora non si godono la pensione perché l’economia in Italia non va avanti. Perché ci sono riforme ogni 5 minuti che dicono tutto ed il contrario di tutto. Ho pensato a me ed ai miei amici, che pur studiando nella migliore università d’Italia, faremo fatica a trovare lavoro perche si prospettano 10 anni di recessione. Ho pensato a me, ed ai giovani d’Italia, ho pensato alle nostre voci che non vengono sentite perche “tanto cosa vuoi che ne sappiamo noi di come gira il mondo”. Ho pensato al cinismo, e a come ho smesso di credere nella politica, a come credo che al nostro governo ci sia una massa di corrotti che se ne infischia se la gente non arriva a fine mese e gli imprenditori si ammazzano perché non riescono a pagare i debiti creati perché hanno creduto nel Paese. Ho pensato che avrei voluto guardare al prossimo nostro primo ministro con gli stessi occhi con cui stasera ho guardato Obama, credendoci ancora, avendo ancora fede, avendo ancora speranza. Ho desiderato guardare qualcuno che mi dicesse che i migliori anni della mia vita stanno ancora per venire, e che si può cambiare, e che ne vale la pena, e che la mia voce conta. L’ho desiderato veramente, con le lacrime agli occhi, di trovarmi in piazza Duomo a Milano il giorno delle elezioni ed essere fiera di essere Italiana. Credo che ci meritiamo di più di quelli che siamo stati abituati ad avere in Italia.

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Mi rendo conto che le cose così come sono non sono abbastanza, e realizzo ancora di più che si può cambiare, e che ho una voce per poterlo fare. Che un giorno sarò esaltata ( e non terrorizzata) di finire gli studi perché so che troverò lavoro, che potrò fare da testimone di nozze ai miei amici Luca e Livio, che guadagnerò lo stesso stipendio facendo la stessa professione che esercita mio marito, che mio papà sarà al mare a godersi la vita invece che trovarlo sveglio in giacca e cravatta alle 6 del mattino quando torno dalla discoteca. È forse questo “the american dream” di cui tanto si parla? Perche se lo è, non credo sia soltanto americano.  O almeno, è anche abbastanza italiano per me.

Adry Ross

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