Quest’anno si celebra la tanto attesa ricorrenza del bicentenario verdiano. E’ il bussetano Giuseppe Verdi, milanese d’adozione, a rivivere d’improvviso tra le pagine dei giornali, nei teatri più prestigiosi (che spesso e ben volentieri tendono, oramai, a snobbare la bacchetta italiana più emblematica), nelle trasmissioni televisive e anche in qualche farraginoso spot pubblicitario.
Tutti conosciamo il maestro Verdi, tutti canticchiamo i suoi motivetti orecchiabili: “Amami Alfredo”, “Va pensiero”, “Libiamo nei lieti calici”, “Caro nome”. Non proprio tutti, però, siamo consapevoli della genialità di quest’uomo, nocchiere del risorgimento musicale (e non solo) italiano, intriso di romanticismo e tradizione, eppure così incredibilmente moderno.
E’ una tendenza tutta italiana quella del pressappochismo, del “sì, lo conosco”, per aver semplicemente letto di un argomento sul televideo o su qualche testata di un qualche giornale abbandonato nel tram. Un atteggiamento, questo, salvifico per l’inutilità di molti temi in voga di questi tempi ma certamente reprensibile per chi ancora non abbia approfondito lo studio di alcuni dei nodi cruciali: uno di questi, forse uno dei più importanti, il fondamento della nostra italianità. E un italiano che sia degno del suo nome non può ridurre la sua conoscenza di Verdi allo “zum-pà-pà” del “La donna è mobile” e fregiarsi del titolo di gran tenore quando, sotto la doccia, si lancia in un “Ed il pensier” tenuto per otto battute e conseguenti otto litri d’acqua.
E’ una tendenza tutta italiana quella dell’associare la parola Italia all’Inno di Mameli, a Mazzini, Garibaldi, Cavour. Pochi sanno però che chi ha fatto l’Italia canticchiava, come il nostro tenore sotto la doccia, le grandi arie verdiane, facendo di queste la grande colonna sonora del Risorgimento. Si tratta dei grandi pezzi che echeggiavano allora nei teatri dove, nonostante la formale separazione sociale tra platea e balconata, tutti gli oppressi italiani univano i propri intenti urlando “O mia patria sì bella e perduta”, i cui colori non scivolavano via il giorno dopo, come accade oggi, ma questi erano il collante per la ciceroniana concordia omnium bonorum.
In occasione del centenario della morte del maestro di Busseto, il presidente Ciampi disse: “se l’Italia divenne una sola nazione, lo si deve anche a lui e alla forza del suo linguaggio musicale”. Ebbene Giuseppe Verdi ha creato la colonna sonora che ha dato vigore ai grandi spiriti plasmatori della nazione. E non è con uno sbrigativo servizio del telegiornale pomeridiano che questo deve essere ricordato, o meglio, insegnato. E non è con un Rigoletto in cui gli attori sono tutti vestiti da topi bianchi, di Alleniana memoria, che quell’atmosfera può essere ricreata.
Per non parlare, poi, dei grandi drammi messi in scena dalla sua bacchetta, dei personaggi, anzi, delle persone immortali dipinte con tratti di violoncelli o con un’ entrata di fagotto. Del gobbo maledetto Rigoletto e della sua crescita morale, del re Nabucco e della sua conversione spirituale, del conte e padre Oberto insultato nell’onore e pronto alla vendetta, della emarginata Traviata e del falso bigottismo dei saloni ottocenteschi, del burlone burlato Falstaff e del suo spirito beffardo. Si tratta di figure senza tempo che se privati della corona, della gobba o del baffo arricciato ben si presterebbero a rappresentare molti degli individui letti nei suddetti giornali stracciati, o incontrati per strada o, addirittura, riflessi allo specchio, la mattina.
Riccardo Muti, il Maestro Riccardo Muti, intitola il suo tributo al suo ispiratore: “Verdi, l’italiano. Ovvero, in musica, le nostre radici”. E noi, con la speranza che i lettori di questo articolo siano stati investiti da sana curiosità, esprimiamo i nostri omaggi a questo nostro padre così, proprio come un tempo: “Viva Verdi” (Giuseppe e non Vittorio Emanuele Re d’Italia).
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