Si è tanto parlato dell’uscita nelle sale del film “Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann, la cui trama è tratta dall’omonimo libro di Francis Scott Fitzgerald. Si è tanto parlato, appunto, ma soprattutto si è tanto scritto, commentato, e recensito. Io non credo nelle recensioni cinematografiche, ma se dovessi recensire “Il grande Gatsby”, lo farei così: mi sembrava di guardare il film da fuori, e allo stesso tempo di esservi dentro.
Proprio dal di fuori, la pellicola partiva con un notevole svantaggio rispetto all’omonimo cartaceo e, dopo un quarto d’ora di visione, faticava palesemente a tenere testa all’avversario. La più classica delle storie: il lettore appassionato che non riesce ad accettare la trasposizione cinematografica del suo amato libro. Ma quando quest’ultimo è riuscito a trascinarti nella storia più che accompagnartici attraverso, quando è stato capace di farti entrare tra righe dei capitoli come fossero cancellate della dimora di Jay Gatsby, o di intrufolarti tra le frasi dei dialoghi come se ti avesse furtivamente introdotto nel salotto dei Buchanan, o farti vivere le parole con tanta forza da sentire sulla pelle il vento e la pioggia che si abbattono la notte su West Egg, allora quel libro ha creato nella tua testa un mondo fatto di volti, paesaggi, suoni e sfumature che difficilmente si ritrovano uguali sullo schermo.
A onor del vero, Luhrmann, il regista, lo si conosce, e la sua arte chiede di essere apprezzata per quel che è. Sfarzosa, barocca, colorata, luccicante e rumorosa. Ogni festa è un po’ orgia musicata, un po’ cancan del Moulin Rouge, un po’ serraglio persiano. I volti truccati e le grida alle feste sono ormai un marchio di fabbrica. I colori accecano, le canzoni confondono, gli eccessi si sprecano in un susseguirsi di scene dove lo spettatore sa che stravolgere, osare, tagliare, aggiungere, innovare è l’unico modo per riprodurre su pellicola una storia del genere. E, tuttavia, non può fare a meno di ignorare la sensazione che in quella superficiale spettacolarità ci si perda qualcosa.
Poi quel qualcosa arriva. È la scena dell’incontro tra Nick e la cugina Daisy nella maestosa dimora di lei sulla riva ovest di Long Island. In un turbinio di tende mosse dal vento, s’intravedono le mani di Daisy spuntare oltre la spalliera del divano, di sottofondo la puerile risata della ragazza. Il bianco latteo del tendaggio si frappone tra Nick e il salotto, e quello dello schermo tra lo spettatore e la realtà del film. “Mi sembrava di essere dentro e allo stesso tempo di guardarmi da fuori” dice Nick.
Così anche io, spettatrice dal di fuori, attrice dal di dentro.
A tratti stordita da quel carnevale di volti, luci e voci, a tratti trascinata oltre lo schermo, a Long Island, a fare la mia conoscenza con l’estate newyorkese del 1922 e con il suo indiscusso protagonista: il grande Gatsby. E nonostante avessi già avuto l’onore e il piacere di apprezzarne l’enigmatica personalità, i modi signorili e i gli abiti di sartoria, mi sono scoperta nuovamente affascinata dalla sua figura e intrigata dai suoi misteri, appassionata alla sua ricerca e sorpresa a commuovermi, ancora una volta, per la sua infantile tenacia.
E mi sono stupita di Luhrmann stesso. Non tanto per la colonna sonora pop che ha scelto per un film ambientato nei primi anni ’20, o per i siparietti comici con cui condisce una storia così poco faceta, quanto per le pennellate di realismo con cui adorna il film. La scena esemplare di Nick che, affacciato al balcone, osserva New York, innamorandosi della città attraverso i vetri delle finestre del palazzo di fronte, restituisce al lettore una galleria di quadri di hopperiana ispirazione. Personaggi troppo caratterizzati per essere reali, ma troppo veri per essere finti.
Così è Gatsby. Così è “Il grande Gatsby” dal di dentro. Troppo sopra le righe, eccessivo, farsesco e ridicolo per essere paragonato al libro e al suo intenso verismo. Eppure, nel brilluccichio degli occhi di DiCaprio si intravede perfettamente l’onirico progetto di Gatsby, nelle lacrime della Mulligan si percepisce la debolezza di una donna incapace di vivere all’altezza del sogno dell’uomo che ama, nella barba incolta di Maguire si capisce la crudezza dello scontro di Nick con lo squallore e la pochezza della realtà.
E quando questa realtà prende il sopravvento, quando le luci si spengono e la festa finisce, allora ci si rende conto che l’eroe in questo film, non c’è. Non è certo lo scrittore Nick, non è l’eterea Daisy, né il bruto Tom. E non è neppure il grande Gatsby. Protagonisti di questa storia sono due colori, e le immagini che questi vogliono evocare. Il blu degli occhi sul manifesto pubblicitario che troneggia sulla valle di ceneri e il verde della luce in fondo alla baia, a rappresentare l’incorruttibile sogno di Gatsby di riavvolgere il tempo.
“C’era in Gatsby qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita. Era l’uomo più speranzoso che avrei mai più conosciuto” sospira Nick, ricordando il loro ultimo saluto. Poco dopo, si spengono le luci sul mito di Gatsby e si accendono quelle della sala.
Ma si esce dal cinema con un buco allo stomaco e un tarlo in testa, a chiederci quale sia la nostra luce verde dall’altra parte della baia, verso cosa tendiamo la mano ogni notte, quale sogno ci sembri così vicino da poterlo toccare, e quale futuro ci precludiamo a causa di un passato che non riusciamo a lasciar andare e accettare di non ripetere.
martina.leone@studbocconi.it
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