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Off Campus

Una storia di ordinaria violenza

Reading time: 3 minutes

sorrowdi Francesco Querci

Tratto da una storia vera.

E’ una splendida giornata di primavera. L’aria fresca frizza leggera tra i miei capelli mentre un sole tiepido si posa sul mio volto, rischiarandolo, facendomi sentire viva. Sono all’aperto, in un campo verde, credo, con quel profumo di rinascita dopo un inverno, che inebria le mie narici, stordisce i miei sensi, risveglia il mio corpo. Guardo i miei figli correre di fianco a me. Ridono, scherzano, schiamazzano. Mai trambusto è stato più quieto.

Eppure c’è qualcosa di sinistro in questo paesaggio ameno, c’è qualcosa di finto nei sorrisi dei bambini, c’è qualcosa di lontano, di immaginato nel loro inseguirsi. Il sole si abbassa, il verde si spegne, le risa si fermano. Apro gli occhi. Non sono all’aria aperta. Il prato era solo un’immagine sfocata, dispersa in quell’infinita voragine tra ricordo e sogno, dove è difficile capire cosa sia l’uno e dove cominci l’altro. La realtà, invece, quella la si comprende facilmente. Al contrario del sogno, la realtà la si vive coscientemente.

Io vivo nel Cubo.

Il Cubo è una struttura solida,  in una muratura grigia nascosta agli occhi del mondo. Il Cubo è la mia casa, se “casa” si può definire, perché possiede quattro stanze, quello sì, ma è alto poco meno di due metri e non ci sono finestre. Respiro grazie ad una ventola che permette lo scambio d’aria con l’esterno. Come nei vani bagno ricavati in qualche anfratto di una casa normale.

Vivo qui con i miei tre figli, ai quali faccio da madre, nonna, maestra e infermiera. Loro sono nati e cresciuti qui, nell’abisso del Cubo, la prigione che rappresenta il loro mondo come in quel mito che avevo studiato al liceo, credo fosse filosofia, sugli uomini incatenati al fondo di una caverna, incapaci di discernere quale sia la realtà delle cose.

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Io no. Io sono nata fuori. Nel Cubo mi ci ha chiusa lui. Il Mostro.

Dodici anni or sono il Mostro ha eretto la sua macchina infernale, il Cubo, e ne ha fatto dimora di una figlia con cui condivideva ombre che non potevano essere rivelate. La gente non doveva sapere, non doveva vedere. E così il Mostro le ha chiuse dove solo lui può vederle. Dentro sé stesso, dentro la casa, dentro al Cubo. Così sono nati i miei figli. Da una violenza gridata nell’eco di un teatro vuoto, da un abuso coltivato con sadica dedizione, da un orrore che ha fatto di me la figlia e la moglie del Mostro.

Dodici anni. Non c’è eternità che possa paragonarsi ad un’ora passata nel Cubo. Non c’è infinito che spaventi più delle mura grigie di questo anfratto, dove cose, pensieri e parole sono incerte, al limitare di realtà e fantasia. Trattengo le lacrime ogni volta che metto a letto i miei figli e racconto loro una storia. “Mamma, cos’è il sole?” “Mamma, cos’è un bosco?”. Loro il sole non lo hanno mai visto. Per loro la luce, la vita a cui tutti gli esseri viventi si aggrappano tenacemente, è il neon appeso al soffitto. Sorge alle otto del mattino, tramonta alle otto di sera. Preciso, puntuale, indifferente.

I miei figli mi danno la forza. La forza di guardare oltre le mura del Cubo, di immaginare una vita in quel campo verde, con quel profumo nell’aria. Lontani dal Mostro.

E anche adesso, che sento i suoi passi scendere le scale che lo condurranno alla nostra prigione, anche adesso, che già tremo al pensiero del suo tatto bestiale e della sua umanità decaduta, anche adesso, che la sua mano pesante gira la chiave nella toppa, penso a loro, ai miei figli, e prego. Un giorno tutto questo finirà, ti prego Dio un giorno tutto questo finirà. Eccolo, di nuovo lui, è arrivato. E’ qui. Ti prego Dio fa vedere ai miei figli la luce del sole.

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“Signorina Haarmann?…Amanda?…Non abbia paura. E’ tutto finito.”

Dai dai vieni qui con quella telecamera!..siamo in onda?…

Buongiorno, cari telespettatori. Poche ore fa la polizia ha scovato l’esistenza di un bunker sotto la casa del signor Fritz Haarman. Il bunker era una sorta di prigione dove vivevano ben quattro persone: una donna, pare la figlia di Haarman, e tre bambini, forse suoi nipoti. I vicini, increduli, affermano che Amanda si era trasferita in Sud America circa quindici anni fa e da allora non se n’era più sentito parlare. Speculazioni già sostengono che Haarman abbia segregato la figlia dopo averla messa incinta.

I prigionieri sono stati liberati quest’oggi, intorno alle 14.30. Non si sa ancora di preciso per quanto sempo siano rimasti segregati. E’ però indicativo il fatto che, prima della loro liberazione, siano stati bendati per non venire accecati dalla luce del sole…

francesco.querci@studbocconi.it

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