di Lorenzo Azzi
Ineluttabilmente alligna, priva d’ogni timor di smentita, nelle menti più progressiste dell’età nostra, la convinzione che la sanzione penale abbia da arrogarsi l’esclusiva funzione di strumento deterrente.
L’effetto deterrente (o preventivo) si distingue usualmente in generale e speciale. Una sanzione assolve la funzione general-preventiva nel momento in cui è tale da dissuadere la collettività, spettatrice dell’azione punitiva, dal commettere il fatto sanzionato. Assolve, d’altro canto, la funzione special-preventiva quella sanzione che sia idonea a convincere il condannato a non macchiarsi di recidiva.
Ragionando sulla legittimazione del ricorso alla pena da parte del legislatore (e non del giudice o del potere esecutivo), verrebbe da chiedersi quale sia la fonte normativa costituzionale che imponga al legislatore di prevedere sanzioni penali dotate di un’efficacia preventiva. Per quanto riguarda la funzione special-preventiva, la risposta è priva d’ambiguità, risolvendosi nel richiamo all’art. 27 co. 3 Cost.: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato.” Educato, in una società civile, sarà quel membro della collettività che non commetta nuovamente alcun fatto penalmente illecito. I problemi sorgono, io credo, quando si ricerchi una fonte normativa super-legislativa tale da fondare la necessità della funzione general-preventiva. Non pare, ictu oculi, esserci alcuna norma costituzionale tale da imporre al legislatore di strutturare pene che abbiano (o anche solo si propongano) una funzione di deterrenza rispetto all’intera collettività.
Per trarsi da codesto impiccio, la dottrina è solita far riferimento o alla stretta correlazione tra le due funzioni (generale e speciale), di per sé già semioticamente evidente, o all’effettività del sistema punitivo. Entrambi i richiami sembrano però inconsistenti. Lo è il primo, perché è sufficiente pensare alla commisurazione che della pena è chiamato a fare il giudice per rendersi conto che prevenzione generale e speciale possono condurre a risultati non di poco divergenti (se si dovesse tener da conto solo la funzione general-preventiva, la pena più adeguata sarebbe sempre la massima; d’altro canto, se si dovesse tener da conto solo la funzione special-preventiva, si verificherebbero senz’altro ipotesi in cui la scelta più coerente sarebbe quella di non punire affatto). Lo è il secondo, perché, da una parte, non si fa che münchausenianamente traslare la soluzione sulla risposta a un secondo quesito (qual è la fonte normativa di livello costituzionale che impone l’effettività del sistema sanzionatorio penale?) e, dall’altra, si considera la relazione tra effettività (il concetto del “non solo minaccio, ma applico anche”) e deterrenza generale come di implicazione necessaria, perdendo del tutto di vista, ad esempio, l’aspetto quantitativo relativo alla misura della pena.
Sembrerebbe, dunque, che la funzione general-preventiva, più che essere statuita a livello costituzionale, si sia semplicemente affermata a seguito di una ben precisa tradizione culturale. I riferimenti, è evidente, sono all’utilitarismo benthamiano e alla celebre rielaborazione beccariana.
La teoria della pena profondamente opposta a quella/e preventiva/e è la teoria retributiva. Non è che la ben nota legge del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Si punisce perché è giusto anziché perché è utile. L’uomo occidentale ed evoluto del XXI secolo ritiene che tale teoria sia degna, al più, di neandertaliani esemplari o sottoculture degradate, figlie del sistema delle vendette di sangue, dal Kanun albanese alle “leggi di mafia” nostrane. La funzione della pena dovrebbe perciò essere esclusivamente di tipo preventivo.
A noi pare che una concezione di siffatto genere, al di là dei rispettabilissimi manti d’umanità dietro di cui si nasconde, sia da considerarsi quanto meno superficiale. Un sistema penale che espungesse completamente l’idea di retribuzione, per dire, non prenderebbe in considerazione il limite di commisurazione della pena legato al grado di colpevolezza rimproverabile all’autore del fatto. Eppure, è proprio un ordinamento come il nostro ad attribuire al concetto “ti punisco nei limiti della tua colpevolezza per il singolo fatto” non una semplice rilevanza, ma addirittura una prevalenza rispetto all’idea della prevenzione (tanto è vero che in ambito di commisurazione della pena da parte del giudice la prevenzione generale non deve svolgere alcun ruolo, mentre la prevenzione speciale lo può fare solo per reati di gravità medio – bassa e, comunque, sempre nei limiti della colpevolezza).
La sedicente ideologia progressista di cui s’è detto pare ritenere che qualsiasi germe riferibile alla funzione retributiva debba considerarsi radicalmente incostituzionale. A giustificazione di ciò, prospetta due osservazioni. La prima fa riferimento all’impossibilità (giuridica) per il legislatore di ricorrere alla pena per fini etici. La Costituzione Italiana precluderebbe la sussistenza di uno “Stato etico”, sulla base, presumibilmente, dell’art. 2 (i diritti fondamentali dell’uomo esistono a prescindere dalla struttura statale che, per l’appunto, li “riconosce”) o, più discutibilmente, di una lettura ampia del principio di laicità. Vi si potrebbe obiettare, d’altro canto, che nulla di etico vi sia nell’idea retributiva, ma soltanto pura e semplice logica (“a male segue male”).
La seconda fa riferimento al fatto che necessariamente una teoria retributiva si porrebbe in frontale contraddizione, di nuovo, con l’art. 2: stavolta, però, non con il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona quanto con la loro garanzia, che non sarebbe assicurata se si facesse seguire male a male. D’altro canto, si potrebbe contro argomentare che, nondimeno, la stessa pena detentiva viola un diritto fondamentale della persona: la libertà personale (a prescindere dal fatto che, ovviamente, tale “restrizione” sia giuridicamente legittima, ex art. 13 co. 2).
Per i motivi suddetti, dunque, anziché ritenere che la funzione retributiva sia incompatibile con il dettato costituzionale, sembra preferibile ritenere che lo sarebbe un sistema punitivo che prescindesse da qualsiasi idea di retribuzione.
Chi ritenesse accettabile questa riflessione potrebbe pur sempre sollevare l’obiezione che la teoria retributiva tout court giustifichi la pena di morte e che questa non solo sarebbe esplicitamente in contrasto con la nostra Costituzione (art. 27 co. 4), ma con l’idea stessa di Stato democratico. Non si vuole in questa sede discutere di pena di morte, anche perché lo si è già fatto in passato. Sia però permesso di mettere in evidenza una sorta di paradosso, consistente nel fatto che proprio l’elaborazione giuridico – culturale in tema di diritti fondamentali della persona degli ultimi decenni offre appigli per sostenere la legittimità di tale strumento punitivo. Il riferimento è alla rilevanza man mano sempre maggiore data al valore della dignità della vita umana. Basti pensare a come si apre la Costituzione tedesca o alla struttura della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea di Nizza. E ancora, il pensiero corre al dibattito concernente l’eutanasia, i cui sostenitori fanno sostanzialmente riferimento alla disponibilità del diritto alla vita, in quanto diritto subordinato (o, più correttamente nonché dworkinianamente, soccombente nell’ambito del bilanciamento operatone nel caso concreto) rispetto a quello alla dignità dell’esistenza. La pena di morte, d’altro canto, com’è evidente, viola il diritto (meglio, pone fine) alla vita, non quello alla sua dignità.
Che dire, invece, della pena detentiva, soprattutto se calata in una realtà degradante come quella delle carceri italiane? Nessuna dignità pare essere riconosciuta all’esistenza di chi vi è recluso.
Perplessità ancora maggiori solleva la pena dell’ergastolo, che parrebbe in deciso contrasto con la dignità della vita umana (che dignità può essere riconosciuta a colui la cui unica prospettiva è quella di passare il resto dei suoi giorni fra le medesime mura?), oltre che con l’art. 27 co. 3 Cost., in quanto è radicalmente impossibile pensare di rieducare un soggetto che è destinato a non far mai più parte della comunità sociale (e, se non è impossibile, è inutile). In questo senso, l’argomentazione della Corte Costituzionale secondo cui la pena dell’ergastolo sarebbe compatibile con il dettato costituzionale in quanto l’ordinamento riconosce pur sempre la possibilità della liberazione condizionale, appare logicamente inconsistente e giuridicamente debolissima: è un evidente controsenso sostenere la legittimità costituzionale di una previsione normativa sulla base dell’esistenza di una deroga a quella norma. Anche perché, si badi, quella deroga non scatta in via automatica (ché, altrimenti, nemmeno sarebbe tale), ma è soggetta al rispetto di determinati requisiti, peraltro non solo oggettivi (aver scontato ventisei anni di pena), ma anche soggettivi (ravvedimento e adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato).
E allora, qual è la teoria della pena più efficace nel tutelare i diritti fondamentali della persona?
Quella che viola sistematicamente un diritto fondamentale (probabilmente da ritenersi il supremo), salvaguardandone senza eccezioni un altro, o quella che tutela senza eccezioni il primo, ammettendo in casi estremi il sacrificio del secondo?
Lorenzo Azzi
lorenzo.azzi@studbocconi.it
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