di Federica Colli Vignarelli
Sessione invernale. Meno due, massimo tre giorni all’esame. Mal di schiena, emiparesi alle gambe, guardo l’orologio. Le 13. Sono sveglia dalle 7 e seduta in aula studio dalle 9. Le 13… Eppure le 13 mi ricordano qualcosa. Ah sì. Il pranzo. È ora di pranzo. Che faccio, pranzo? Assolutamente no, perdo troppo tempo. Però sto svenendo. Inizio a vedere sfocato e ad avvertire i primi spasmi muscolari. Questa penna è decisamente troppo pesante. Sbadiglio. Ho sonno. O forse ho fame. Il tizio di fronte mi guarda male. Non devo essere stata particolarmente attraente nello sbadigliare. O forse sto diventando verde, per il sonno, o la fame, e lui si preoccupa per me. Basta, sto pensando troppo. E perdendo tempo. È chiaro che così non possa continuare. Cercherò un rifornimento carboidrati alle macchinette. Speriamo non ci sia coda.
Barcollando esco dall’aula, scendo le scale, recupero un euro dalla tasca dei jeans e opto per l’intramontabile kinder bueno. Salgo le scale, rientro in aula, mi siedo. Scarto il kinder bueno provocando occhiate cariche di ferocia a causa del cronchcronch, onomatopea da carta plastificata. Pazienza. Addento il kinder bueno il più silenziosamente possibile ma ogni morso riecheggia drammaticamente nella mia testa. Spero non si senta così anche all’esterno. Niente occhiate. Posso continuare. Senza rendermene conto termino il lauto pranzo gentilmente concessomi e devo riattaccare. Devo. Dovrei. No, non riesco. L’intorpidimento di poco prima è rimasto tale e quale, insaporendosi di cioccolato e nocciola. Guardo l’orologio. Le 13:20. Dannazione. Il tempo vola.
Facciamo che mi dichiaro in pausa per altri dieci minuti. Il tempo di carburare, di lasciare che le piccole molecole di grasso e zuccheri si sparpaglino felici per il mio corpo. Arrivando al cervello, se possibile. Ok, pausa fino alle 13:30. Il tizio di fronte ha smesso di guardarmi male. Anzi ha proprio smesso di guardarmi. Non devo piacergli. No, niente spotted per me oggi. Direi. Mi guardo intorno e vedo persone normali, con aspetti normali, livelli di disagio apparentemente normali. Sono l’unica, quindi? Possibile che non ci sia nessun altro in una condizione paragonabile alla mia? Di tangibile deperimento psicofisico? Mi guardo in giro e… Oh, no. Non sono sola. Sorrido internamente, e forse anche esternamente. Sorrido perché osservando meglio… No, queste persone non sono normali. Nessuna di loro. All’apparenza, forse. L’arte della dissimulazione appartiene sicuramente più a loro che a me, ma la sostanza ci accomuna. Ci eleva, ci conduce alla catarsi, ci rende un’unica entità metafisica in cui il tutto supera la somma delle parti. Si rileva quindi un avviamento. NO, no. Abbiamo detto che sono in pausa. Sono in pausa, stacco il cervello e osservo i miei simili. Ne scelgo tre o quattro, a campione, e compio qualche minuto di studio antropologico. Mi è sempre piaciuto osservare le persone. Le loro movenze, la loro gestualità, le loro espressioni. Odio generalizzare, odio anche categorizzare, ma dalla mia osservazione ho potuto riconoscere una serie di soggetti-tipo.
Primo soggetto-tipo: l’iMan. iPhone (6, che non è ancora uscito, ma che lui ha), iPad, iPod, AirPro e qualsiasi altra cosa contenga una i minuscola lo circondano gioiosi come i sette nani con Biancaneve. L’iMan rifugge la privacy, destinando un solo dispositivo a scopi accademici e accedendo con ciascuno dei rimanenti ad un diverso social network. Nomi, pseudonimi, record a Ruzzle campeggiano spudorati alla portata di chiunque non si bruci la retina per l’aura luminosa che l’iMan emana. Monopolizza le prese di corrente e assorbe l’energia di un capoluogo di provincia sotto Natale, ma nessuno osa chiedere “scusa, è libero?”, perché gestisce la sua apparecchiatura con una tale accuratezza e concentrazione che finisce col sembrare il secondogenito del colonnello Giuliacci in un centro rilevazioni sismiche.
Secondo soggetto-tipo: il giapponese a Roma. Non è per forza giapponese e certamente non si trova a Roma, ma lui fotografa. Tutto. Ciò. Che. Fa. Tempera la matita e affascinato dal leggero ricciolo in legno colorato che ne scaturisce non resiste. Lo immortala. Apre una lattina di cocacola e resta folgorato dagli intarsi in alluminio. Decisamente più fotogenici del tetrapack. Click. Si accorge dell’ambiente minimal e asettico dell’aula studio, sfondo ideale per un autoscatto. Click. Finisce di evidenziare in giallo fluo la pagina, avendo cura di saltare gli “invece”, i “tuttavia” e ovviamente le frasi fra parentesi. Può forse resistere? No. Così come non può non valorizzare tanta arte così spontaneamente prodotta. Chiedendosi perché non abbia ancora presentato la propria candidatura all’accademia di Brera, estrae un qualsiasi strumento tecnologico che supporti instagram, pondera attentamente quale effetto tra Nashville e Brannan valorizzi meglio il giallo fluo di cui sopra, e si ritira qualche secondo in riflessione per partorire hashtag vincenti. Suggerimento: #studiomattoedisperatissimo ha quel tocco leopardiano che non delude mai.
Terzo soggetto-tipo: il bello e dannoso. No, non è importante che sia bello. Ciò che rileva è che ne sia convinto. Lui è bello, perciò non può stare seduto e studiare. Non per un intervallo di tempo eccessivo, perlomeno. Perciò il bello e dannoso ad intervalli regolari si alza, si dirige verso l’uscita con quell’andatura cadenzata da calciatore ammonito ingiustamente, fa passare circa 120 secondi trascorsi i quali rientra e torna al proprio tavolo. Senza sedersi, lancia una rapida occhiata alle variazioni di fauna femminile verificatesi durante la sua breve (ma incolmabile) assenza, dopodiché, certo di essere guardato, prende in mano un foglio a caso, simula una lettura disinteressata, e sbuffa. Annoiato? Rassegnato? È troppo bello per leggere quel foglio? Si è per caso reso conto di averlo tenuto in mano al contrario? No, non c’è pericolo. È che è appena entrata una nuova fanciulla, e lui deve ricominciare tutto da capo.
Quarto soggetto-tipo: l’opossum. Apparentemente innocuo, questo soggetto racchiude in sé una serie di misteri ai più indecifrabili. Lui non si muove. Lui è lì, nella stessa posizione, da quando sei arrivata e non l’hai ancora visto muoversi. L’unico anelito di vita sembra essere il gesto rotatorio del polso col quale sfoglia le pagine. Per il resto è lì. Immobile. Chino sul libro. Non sottolinea, non prende appunti, non si stiracchia, non controlla il telefono, non va in bagno, probabilmente non respira. Deve aver sviluppato una struttura branchiale col passare delle sessioni. Avresti tantissima voglia di toccarlo, urlargli parole cattivissime, lanciargli un Codice Civile, realizzare un aeroplanino di carta e puntarlo dritto alla sua persona, insomma fare qualsiasi cosa che possa provocargli una qualsivoglia reazione. Ma non lo fai, perché lui è lì, immobile, come l’opossum che per autodifesa simula la morte così da non risultare attraente ai suoi predatori. Non lo fai, perché nessuno attacca un opossum morto. Soprattutto, tu non sai fare gli aeroplanini.
E poi ci sono io, che ho finito i miei dieci minuti di pausa, che ho recuperato la vista e la mobilità degli arti, che devo riattaccare perché fra due, massimo tre giorni ho un esame. Io, che osservo voi, che non dite niente, eppure dite così tanto.
federica.collivignarelli@studbocconi.it
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stellina94
“Ma non lo fai, perché lui è lì, immobile, come l’opossum che per autodifesa simula la morte così da non risultare attraente ai suoi predatori.”
Geniale.
maria
Complimenti, scrivi benissimo!
Federica
Leggo solo ora, vi ringrazio moltissimo!