di Martina Leone
Matteo (Renzi) riparte dalle scuole.
Nel discorso tenuto a Palazzo Madama il giorno del voto di fiducia al nuovo governo, l’entrante Presidente del Consiglio ha voluto sottolineare più volte che il punto di partenza del processo di “ristrutturazione” dell’Italia deve essere proprio l’istruzione, e, di rimando, il suo incubatore in cemento, mattoni e vetro: la scuola.
Anche Susanna (Camusso) annovera nel suo trittico di priorità per risanare il mondo del lavoro e l’economia del paese in generale, quella di ripensare le scuole.
Nella lezione tenuta in Bocconi Venerdì 28 Febbraio, la segretaria generale della CGIL ha espresso chiaramente che, secondo lei, una riforma del lavoro non è una misura sufficiente. A detta sua, “cambiare le regole del gioco non necessariamente crea posti di lavoro”, quello che occorre veramente è tornare sui quei famosi banchi di scuola e cominciare da lì a riparare ciò che non va.
A chi si chieda “perché le scuole?”, Matteo risponde che un territorio che investe in capitale umano, in educazione, in istruzione pubblica è un territorio più forte rispetto agli altri; che “di fronte alla crisi economica non puoi non partire dalle scuole”. Susanna, invece, evidenzia come il problema stia nell’inadeguatezza del rapporto scuola-lavoro e nella convenzione sociale che attribuisce minor dignità al lavoro manuale, tecnico e professionale. E non sono i soli a pensarla così.
McKinsey ha recentemente condotto uno studio (Studio Ergo Lavoro) sul disallineamento tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro. I dati che ne emergono sono allarmanti.
Nella scelta della facoltà universitaria, per fare un esempio, solo il 29% dei ragazzi intervistati considera rilevante la diponibilità lavorativa post lauream o le statistiche di job placement. Mentre un misero 22% ritiene significativo conoscere le retribuzioni medie dei laureati di quel settore, ben il 66% guarda a interessi personali e il 33% a vicinanza dell’università da casa e famiglia (dati estratti dalla ricerca di mercato Education to Employment – analisi McKinsey).
E intanto la domanda di posizioni tecniche aumenta più che proporzionalmente rispetto agli iscritti a istituti tecnici, mentre facoltà come quelle di Lingue e Lettere vedono iscrizioni rimanere stabili, se non in crescita, a fronte di una drastica diminuzione dei posti di lavoro. Il problema è che si è dimenticato il vero ruolo delle scuole.
Si comincia ad andare a scuola a circa tre anni, considerando la scuola materna, e non ne si esce prima dei diciotto, ventiquattro circa per chi continua con l’università. Quindici anni (o venti per questi ultimi) diventano quasi una pena da scontare. Un mero inseguimento di obiettivi di lungo periodo, quali il diploma o la laurea, e altri di più breve termine, vedi la promozione ogni anno o il “passaggio” degli esami. Si superano così interrogazioni, compiti in classe, esami di fine anno, e ci si trascina avanti, più o meno bene, in uno stato di miopica incoscienza.
Ma a scuola che ci si va a fare? Il fine ultimo e supremo è davvero tradurre Eratostene o calcolare la traiettoria di un proiettile sparato perpendicolarmente al suolo? La scuola non è, o non dovrebbe essere, una mensa di nozioni infarinate in salse disparate, con dessert di quiz e prove che testano capacità mnemoniche e solidarietà tra compagni più che intelligenza, maturità e cultura.
Quello che davvero dovrebbe essere è una palestra di vita, un trampolino di lancio verso il futuro. Si va a scuola perché si deve imparare a stare al mondo, e ci si deve preparare ad affrontare il mondo degli adulti con un bagaglio di capacità, conoscenze e idee chiare per fare delle scelte e imboccare la strada giusta.
Le idee chiare, in tutta onestà, quanti di noi le avevano a diciotto anni? Quanti pensavano davvero a che lavoro avrebbero voluto o potuto fare “da grandi”?
E quanti hanno pensato, tra i banchi di scuola, a riempire quel famoso bagaglio nel modo migliore possibile o a compare il biglietto per la meta più promettente?
Matteo e Susanna vogliono ripartire dalle scuole.
Noi che ci siamo ancora dentro, forse, dovremmo trovare il modo per dar loro una mano.
martina.leone@studbocconi.it
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stellina94
Signori solo una nota metodologica: io vi voglio bene e mi piaceva tantissimo il vecchio capoccia ma se iniziamo a pigliare le analisi di McKinsey per parlare di scuola poi ci tocca pigliare la BCE per parlare di consulenza aziendale, i rapporti EcoFin per indagare il ciclo riproduttivo dei macachi e lo statuto di Goldman Sachs per spiegare la Corporate Social Responsibility.
A ciascuno il suo, vi prego!
PS. La Camusso di scuola non capisce una minchia. so che nell’articolo non si dice il contrario ma fa bene ricordarlo