di Michele Canzi
C’è chi sostiene che tutti l’abbiano fatto almeno una volta. Bambini e anziani. Sconosciuti e celebrità. Ricchi e poveri. Papa Francesco e il Mars Rover, il robottino lanciato dalla Nasa alla volta di Marte.
Probabilmente non se ne sentiva il bisogno, ma l’Oxford Dictionary ha individuato la parola che caratterizza il 2013 nel vocabolo “selfie”, l’autoritratto catturato dallo smartphone e rovesciato immediatamente nella piazza dei social. Usato per la prima volta nel 2002 in un forum australiano e adottato poco dopo da Flickr, il fenomeno è esploso negli ultimi anni con un incremento del 17.000% nella qualità e quantità degli autoscatti. Il fenomeno, infatti, produce consanguinee varianti sul tema quasi per gemmazione: si parla di helfie (fotografia dei capelli), belfie (lato b), welfie (il proprio lavoro) e infine drelfie (autoritratto in stato di ebbrezza).
Quasi sicuramente non si percepiva la necessità nemmeno di una classifica delle città “più selfie”. Ma già che c’era, il Times ha deciso di divulgare una mappa interattiva con annessa graduatoria delle “100 Selfiest Cities in the World”. Il ranking si basa sulle istantanee pubblicate su Instagram, geotaggate e con il tag #selfie. Nel testing period considerato, Milano difende pugnace il suo ottavo piazzamento, con 108 selfie ogni 100.000 abitanti, in barba a San Francisco (91) e Parigi (80).
I critici specializzati, dal momento che ce ne sono e ci tengono a schierarsi, parlano di oversharing destruens alimentato da frequenti afflati di vanità: una banale espressione di narcisismo. Quel che è sicuro è che rappresentano una parte importante del moderno linguaggio visivo, una nuova forma di comunicazione dove motivazione ed intento dovrebbero essere positivi. “Condivido, dunque sono” è la cartesiana aberrazione di Sherry Turkle, psicologa e docente al MIT.
Naturalmente, la diffusione dei selfie ha sparigliato le carte sul tavolo del dibattito sociologico, che ora spiega le vele su macro-temi come la rappresentazione, l’immagine, il narcisismo, l’ossessione per la bellezza a tutti i costi e una spruzzata di complesso di Elettra in salsa Junghiana. Il selfie è narcisistico nella misura in cui mostra il desiderio di esibire una parte di noi stessi. Quindi, che c’è di male? Per Sigmund Freud, il narcisismo è una sana componente dello sviluppo di sé.
Il nodo è proprio questo: chi dice che Narciso era un narcisista? Si considerino ad esempio due celebri personaggi delle Metamorfosi di Ovidio, Atteone e Narciso. Il primo, esperto cacciatore, scopre di essere stato trasformato in un cervo maschio solo dopo aver notato la sagoma delle sue imponenti corna nell’acqua del ruscello. Diversamente, Narciso si innamora della sua immagine riflessa ma, come precisa Ovidio successivamente, non riconosce da subito il suo volto nel fiume. Infatti, annega specchiandosi, sconvolto dall’epifania di non aver adorato altri che se stesso. Il povero Narciso non è stato punito da una “selfie”.
Oggi, i profeti del ritratto digitale ne testimoniano la carica democratica e rappresentativa; i difetti dell’autoscatto, dicono, e il suo flavor un po’ casalingo sono diventati i tratti stilistici di un modo nuovo di comunicare la propria identità. È bello pensare che Baudelaire, già nel diciannovesimo secolo, alzava barricate contro l’influenza massificatrice del dagherrotipo, che ci rende tutti un po’ più Atteone (quello con le corna) e meno Narciso.
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