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La psicologia del killer: scienza e ragione, arrendetevi

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di Federica Colli Vignarelli

Ogni qualvolta l’elegante anchorwoman del TG5 contrae i muscoli facciali per annunciare l’ennesimo caso di omicidio, per un attimo interrompiamo elogi e critiche a calciatori e politici e ci concentriamo sul servizio del Tony Capuozzo di turno. I commenti non devono nemmeno essere chiamati: dal “che schifo” nel caso di colpevole accertato al “sicuramente è il marito” delle impressioni a caldo, tutti avvertiamo come spontanea una qualche minima partecipazione alla notizia.

La realtà, però, è che quando la stessa conduttrice ruota il busto verso un’inquadratura più confidenziale, per sfoggiare il sorriso migliore e informarci che con questo caldo dobbiamo mangiare tanta frutta, l’inquadratura l’abbiamo cambiata anche noi. Sarà che siamo assuefatti da C.S.I., che non conoscevamo né la vittima né il carnefice o che il luogo del delitto non è nella nostra stessa provincia ma non riusciamo, per natura, a immedesimarci pienamente in ciò che è successo. Per quanto colpiti manteniamo un distacco di default, per il quale forse siamo stati programmati a fini di autoconservazione.

Così riprendiamo a inforcare gli spaghetti e ci concentriamo sul turchese che è il nuovo giallo che fa tanto estate. A qualcuno però, mentre affetta l’ananas o si passa il filo interdentale, potrebbe capitare di ripensare all’assurdità di quell’episodio, in particolare al così breve passo tra il non essere e l’essere un omicida. E magari di chiedersi: cos’è, che scatta, nel cervello?

La scienza è ormai da decenni alla ricerca di un filo d’Arianna che possa condurre a un qualsiasi tipo di conclusione. Schiera in campo medicina, sociologia, psichiatria: tre punte che per quanto allenate e coordinate non riescono a trovare la via d’uscita di un labirinto in cui il Minotauro sembra regnare ancora incontrastato.

Una cosa, purtroppo, è stata appurata: i killer, anche seriali, non hanno un cervello diverso dagli altri. Nessun gene distorto, nessun cromosoma difettoso. Da un punto di vista meramente scientifico, chiunque potrebbe uccidere. È la traduzione biologica dei “salutava sempre” e “sembrava un così bravo ragazzo” che si sprecano durante le imbarazzanti testimonianze raccolte dai giornalisti tra vicinato e bar della piazza. Nessuna predisposizione congenita. Niente di riconoscibile, preventivabile, curabile. Sono categorizzabili solo a posteriori, quando il loro operato permette di annoverarli tra seriali od occasionali, organizzati o disorganizzati, motivati o visionari.

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Tralasciando le più approfondite elucubrazioni operate negli anni dai migliori criminologi con l’intento di delinearne precisi quanto scarsamente affidabili “segni di riconoscimento”, solo una cosa parrebbe ripresentarsi con frequenza andando a scandagliare l’esistenza di chi ha commesso un omicidio: il trauma infantile. Il che fa ridere, perché probabilmente un po’ tutti l’adduciamo come scusa per giustificare comportamenti o manie strane tipo non prendere mai il primo cartone del latte sullo scaffale al supermercato.

Sebbene non provochino mutazioni genetiche, infatti, esperienze quali abusi sessuali, violenza fisica, eccessiva sottomissione di un genitore rispetto all’altro, la perdita di entrambi o la scoperta di non esserne il figlio naturale può, secondo gli studi, impedire lo sviluppo della corteccia insulare anteriore, quella zona del cervello adibita a regolare l’empatia verso i propri simili.

Il potenziale omicida è così portato a sentirsi sempre meno a proprio agio in società, sempre più incapace di relazionarsi col prossimo o addirittura non degno di poterlo fare. Ciò che serve è dunque una rivalsa, una prova di supremazia, controllo e potere che si sentono in dovere di dare a loro stessi e al mondo.

Un esempio su tutti? Forse il più famoso: Ted Bundy. Un attivo di circa 35 vittime che il 24 gennaio 1989 gli è costato la sedia elettrica. Padre mai identificato, viene cresciuto dai nonni materni (lui un violento filonazista, lei remissiva e sotto antidepressivi) i quali gli fanno credere però di esserne i genitori biologici, spacciando la madre per una sorella maggiore. È solo nell’adolescenza che scopre la scioccante verità, proprio in concomitanza con l’addio da parte della fidanzata, che alimenta la sua misoginia latente portandolo ad adescare, violentare, uccidere più di trenta giovani donne infierendo sui loro cadaveri abbandonati anche a distanza di giorni.

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Erano gli anni ’80, un caso limite con un trascorso limite. Ciò che fa riflettere, oggi, è il fatto che gesti altrettanto disumani vengano compiuti senza che vi sia un background così tormentato. La cronaca recente, tra indagati e rei confessi, avalla questa tesi: dal fidanzato brillante bocconiano di Garlasco, al padre di famiglia e amante degli animali di Brembate, al marito perfetto che la domenica prepara le torte di Motta Visconti. Nessuna apparente carenza emotiva da colmare. Nessuna apparente ragione.

Il sonno della ragione genera mostri”, intitola un quadro di Goya. Forse è proprio questo che succede. La parte più preistorica, bestiale e irrazionale approfitta dell’esatto istante in cui si abbassa la guardia, si mette a nudo la debolezza, si annienta la lucidità con la fragilità insita nell’essere uman… nell’essere. Si perde il contatto con la realtà e da quel momento non lo si riprende più. Immagino il cervello in un tripudio di cortocircuiti impazziti, cortecce che si sbriciolano, recettori che si sfasano, sinapsi che collidono. Sarebbe interessante vivisezionarlo in quel preciso istante.

Perché sì. Raccontati, romanzati e quasi mitizzati da letteratura e cinema, gli assassini sono sempre stati in grado di suscitare nei loro spettatori i sentimenti più contrastanti. Dallo sdegno al timore, dall’incredulità al fascino. Lo stesso che provoca, del resto, tutto ciò che sfugge alla nostra razionale comprensione.

Così si parte, come spesso nella vita, alla più o meno vana ricerca di qualcosa che possa -se non giustificare- quantomeno motivare. Qualcosa che la nostra psiche accetti quale assurdo chiarimento, paradossale senso, inspiegabile spiegazione. Perché c’è solo una cosa che la nostra mente accetta meno di una risposta inaccettabile.

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L’assenza di risposte.

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