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CHE FINE HA FATTO MIKHEIL SAAKASHVILI

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Di Jacopo Epifani

Capita, se si abita in una grande città o se si frequentano rinomate località turistiche, di imbattersi in personaggi famosi o personalità autorevoli ( i cosiddetti V.I.P, secondo una delle più aberranti definizioni linguistiche mutuate dal sintetismo lessicale anglosassone) mentre si fa la fila alla Rinascente, al tavolo dell’ aperitivo in spiaggia, durante il jogging al parco. Neppure chi “ormai non guarda più la televisione da anni” o i più impermeabili all’ascendente delle celebrità possono negare il sobbalzo, istintivo, l’attimo di confusione che proviene dalla vista di un soggetto di apprezzabile notorietà in abiti borghesi. Capita, anche, che la celebrità incontrata abbia già vissuto lo zenit della propria popolarità in tempi ormai decorsi, che la sua visione sia capace di titillare soltanto la memoria degli “aficionados” più nostalgici. La dura esistenza di chi ha toccato il cielo con un dito in passato mentre nel presente si trova costretto a vangare la terra proprio come quei comuni mortali che un tempo guardava dall’alto di un finto piedistallo.

Chi scrive repelle visceralmente il costume, non certo recente, di immortalare il momento dell’incontro con un personaggio pubblico, tramite un selfie o un autografo, per una serie di ragioni che mi pare inopportuno e poco economico elencare. C’è, però, una storia un po’ diversa, che sembra uscita da un romanzo di Jean Patrick-Manchette: un po’ a tinte fosche, una storia di travolgente disillusione e di folgorante, ma passeggera, gloria, una storia tanto intrigante e malinconica che, in virtù della stessa, anch’io, qualora lo incontrassi, desidererei quantomeno una foto ricordo con il suo protagonista: la storia è quella di Mikheil Saakashvili.

Oggi Mikheil Saakashvili è un quaranteseienne georgiano, dall’ abbigliamento composto ed abbastanza anonimo, che, chi volesse, potrebbe incontrare per le fumose strade di Williamsburg, uno dei tanti quartieri di Brooklyn intriso di storia sociale e tradizioni che la gentrificazione ha relegato al più subdolo e grigio anonimato. Per chi non lo conoscesse, Saakashvili assumerebbe le parvenze di uno delle decine di migliaia di immigrati di seconda o terza generazione dell’ Europa Orientale che popolano le metropoli statunitensi, uno di quelli che, al più, ti può raccontare di come il papà o il nonno abbiano raggiunto l’ East Coast in translantico, del loro approdo e del difficile adeguamento ai canoni del sogno americano, di quella che volta che è tornato dalle sue parti per riscoprire le proprie origini e poi ha già esaurito gli argomenti di conversazione interessanti.

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Ed invece no. L’uomo di mezz’età, addominale rilassato, polo blu e pantaloncino rosso che attende il suo turno al mercato di Smorgasburg, sulla cui prominente pancia potreste inavvertitamente sbrodolare il vostro milkshake per poi cimentarvi in un poco convinto teatrino di scuse, era, fino al 17 novembre 2013, meno di un anno fa, il presidente della Repubblica Democratica di Georgia. Poco più di dodici mesi fa, colui che ora si accerta, presso il proprio venditore ambulante di fiducia, gli procuri la noce di cocco più fresca tra quelle sul bancone, dialogava vis-à-vis con Putin e con tutti i maggiori capi di stato mondiali.

A metà settembre ha concesso un’ intervista, proprio in quel di Williamsburg, a Todd Heisler, giornalista del New York Times, ma prima di entrare nel merito della stessa è opportuno un rapido ripasso su chi era e cosa faceva Saakashvili fino ad un anno fa, perché quello che oggi sembra un uomo come tanti non è stato, invece, un Presidente come gli altri.

Mikheil Saakashvili nasce a Tbilisi il 21 dicembre 1967, si laurea in legge a Kiev ed approfondisce i suoi studi nei college statunitensi. Tornato in patria, già dal 1995 si avvia ad un’ inarrestabile carriera politica, in continua ascesa, senza soluzione di continuità. Nel 1995 siede già al Parlamento georgiano, nel 2000 ne viene eletto vicepresidente, pochi mesi dopo sale al soglio del Ministero della Giustizia del Governo Shevardnadze. Siamo in una Georgia ancora disorientata, smarrita in mezzo al guado, non ancora abbastanza lontana dalla riva di partenza del comunismo filosovietico (nel 1995 fu politicamente costretta ad aderire al CSI, Comunità degli Stati Indipendenti che raccoglie 10 delle 15 ex repubbliche socialiste, in seguito al soccorso garantito da quest’ultimo al governo per placare una rivolta popolare capace di minare la stessa vita del presidente Shevardnadze)   ma che ancora non vede l’orizzonte occidentale. Una Georgia che vive un rapporto conflittuale con Mosca, per via delle sommosse cecene, che sorride agli Stati Uniti ma a cui è ancora sconosciuta la democrazia. Nel settembre 2001, Saakashvili dichiara che “sarebbe immorale, per la mia storia e le mie convinzioni, continuare a far parte di un governo penetrato dalla corruzione quale quello di Shevardnadze”, nel novembre 2003 sfida lo stesso Presidente in carica alle elezioni politiche, uscendone sconfitto. Non è, tuttavia, Saakashvili l’unico georgiano insoddisfatto del governo e pochi mesi dopo monta nelle piazze di Tbilisi il malcontento popolare, deflagrato dal sospetto di brogli alle elezioni del novembre precedente. È la “Rivoluzione delle Rose”. Shevardnadze è costretto a dimettersi, nel gennaio 2004 si tengono nuove elezioni e Saakashvili, alla guida dell’ UNM, Movimento Nazionale Unito, ottiene il 96% dei consensi. Nonostante provveda da subito alla redazione di una riforma costituzionale che ne accrescesse i poteri, da subito Saakashvili dichiara che l’obiettivo politico principe è la democratizzazione dell’ ordinamento nazionale, nonché l’ingresso della Georgia nell’ Unione Europea. L’Economist sintetizza così la sua esperienza di governo:

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«Ha guidato la Georgia attraverso una rivoluzione culturale, modernizzandola, scuotendole di dosso i residui sovietici e ridando al paese un ruolo nella politica internazionale. Ha anche combattuto e perso una guerra contro la Russia, represso l’opposizione, controllato i media, interferito con il sistema giudiziario e monopolizzato il potere».

Tuttavia, nonostante a simili recensioni si accompagnino elogi della Banca Mondiale per la sua lotta alla corruzione, presso l’opinione pubblica nazionale, già a partire dal 2006, l’aurea di quasi-sacralità della sua figura inizia a scemare. Crescono le proteste ed il sospetto che l’alfiere georgiano della democrazia poi così democratico non sia. Così, l’importatore della democratizzazione viene sconfitto, alle elezioni presidenziali del novembre 2013, proprio quelle elezioni salutate come le prime “veramente democratiche” in Georgia.

Eccolo, dunque, Mikheil Saakashvili, un anno dopo, al tavolo con Todd Heisler, pontificare sull’imminente tramonto di Putin (suicida l’ opzione di attacco all’ Ucraina, a suo dire), ricordare della giovinezza universitaria trascorsa a Manhattan e di quanto la stessa sia cambiata a distanza di vent’anni, presentare progetti di think-thank e riferire della prossima uscita della sua autobiografia, come un Joe Pesci o un Luke Perry, o qualunque altra celebrità dimenticata dello star system. In realtà, lui dichiara di aver già tutto pronto per tornare, in patria, sull’ onta della ribalta. Nel computo sulla probabilità delle dichiarazioni di rivalsa dell’ ex presidente georgiano, tuttavia, vanno inclusi due processi pendenti, a Tbilisi, per violazione dei diritti umani ed appropriazione indebita di danaro pubblico. Una cosa gli va però riconosciuta: sotto la sua presidenza si sono tenute le prime elezioni autenticamente democratiche in Georgia, da quelle elezioni è uscito sconfitto ed ha accettato il risultato, “autoesiliandosi”, come dichiara egli stesso, a Brooklyn. Se sia considerabile come un eroe oppure alla stregua di un farabutto saranno i tribunali a dirlo, oppure i posteri. Di certo c’è che, se fosse ancora in vita, l’ autore della sua biografia non potrebbe essere altri che Jean Patrick Manchette con il suo noir à la française di respiro internazionale.

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