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La speranza è una trappola

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speranza

Di Enrico Genovese

Sperare. È sin dalla nostra nascita una delle cose che più spesso siamo portati a fare, volenti o nolenti. La speranza è invocata quasi in ogni momento importante della nostra vita; inevitabilmente, ogni attesa che conta, oltre che portare con se una certa dose di incertezza e insicurezza, è accompagnata dal classico “speriamo vada tutto bene”.

Il rapporto con questo leitmotiv, non è però sempre rose e fiori.

La speranza è un argomento talmente astratto e volubilmente concreto allo stesso tempo che non è così facile riuscire a trattarlo senza sproloquiare. Di certo quando si cerca di parlarne si entra in una sfera forse fin troppo personale, dalla quale è comunque possibile cercare di trovare degli insegnamenti, dei piccoli consigli, partendo proprio dai singoli vissuti, che per quanto diversi, sono pieni di aspetti inesorabilmente simili, quasi ridondanti. In tal senso, il primo elemento che mi viene in mente sono le poche spietate parole, espresse dal mio docente di italiano dopo la correzione del primo tema del liceo che aveva come traccia centrale le aspettative sui prossimi cinque anni di scuola.

“I temi non sono andati male, ma quasi tutti hanno fatto un grosso errore sostanziale nelle riflessioni finali”.

Il peccato originale era stato quello di aver dato troppo spazio alla speranza, all’innocente fantasia in un certo senso: troppe favole e pochi progetti concreti, insomma. Parole forti per dei ragazzi di 13-14 anni appena, che probabilmente non possono che guardare al futuro con questi occhi; quelli sognanti di una generazione ancora troppo lontana dai problemi reali, dalle decisioni che contano eppure che sente bussare il futuro giorno dopo giorno con più insistenza. Ma perché questa avversione verso la speranza? L’aspettativa di un cambiamento futuro qualcosa di migliore, è forse un male?

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In una delle sue ultimissime interviste, rilasciata nel 2010 alla Rai, uno dei più grandi registi della commedia all’italiana, Mario Monicelli, analizza con cruda razionalità la situazione socio-politica italiana. In uno dei passaggi più intensi e significativi il maestro così dice: “La speranza di cui parlate è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare […] mai avere la speranza, è una trappola inventata da chi comanda”. Parole forti, ritenute da molti come distruttive: l’ultimo canto di disperazione di una personalità italiana così complessa e controversa fino all’ultimo dei suoi giorni. Chi si affida alla speranza, chi aspetta affinché qualcosa cambi, è destinato a uscirne sconfitto. Chiunque non si scomoda troppo per far si che ciò che conta realmente si avveri è forse un perdente? Ognuno è libero di fare ciò che vuole, certo, però è tanto responsabile delle proprie azioni quanto delle propria staticità. Riflettendoci, tutto ciò che noi compiamo agendo senza una particolare partecipazione e spinta emotiva – aspettando e per lo più augurandoci che si realizzi – senza contribuire fattivamente alla riuscita, che si tratti di un esame universitario, di un progetto di lavoro o di una relazione personale è destinato, giorno dopo giorno, a sgretolarsi assieme a noi stessi.

Esiste allora una lezione morale che è possibile ricavare da tutto ciò? È senza dubbio facile scadere nella più scontata delle banalità quando si parla di speranza. Una chiave di lettura positiva può proprio essere quella dell’azione; principio nettamente opposto alla staticità. Eppure fosse così facile, basterebbe mettere da parte la disillusione legata all’attesa spasmodica della attuazione dei propri sogni, e cercare in tutti i modi di realizzarli, contribuendo fattivamente, con tutte le proprie capacità e forze alla concretizzazione degli stessi. Forse è più semplicemente una questione di metodo. Il problema è che, senza neanche farci caso, troppe persone passano dall’età in cui si dice “un giorno sarò così” all’età in cui prevale il “purtroppo è andata così”. È forse proprio da questo che bisogna partire. Affrontare il futuro per quello che è: una sfida, ardua, piena per lo più di punti ciechi, tuttavia avvincente e piena di tanti piccoli potenziali appagamenti. Non aspettare che il futuro sia presente, ma renderlo noi tale.

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In questo senso è possibile trovare un filo logico diretto fra le parole del mio docente di italiano e il grande Mario Monicelli; ragionamenti tanto distanti quanto straordinariamente prossimi.

Ammonendoci, probabilmente era proprio questo che cercava di dirci il professore: la speranza è una trappola.

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