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INTERVISTA A MATTEO CONGREGALLI: LA GRAMA ESISTENZA SUPERFICA DI UN GIOVANE REPORTER FREELANCE

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Di Jacopo Epifani

Perché dovremmo trattenere in Italia ragazzi come Matteo Congregalli, collaboratore freelance per le più famose testate online.

epifL’Italia è una Repubblica gerontocratica fondata sul lavoro precario giovanile.

Siamo un Paese in cui “anziano” è sinonimo di “affidabile”, la canizie pare ispirare più fiducia di qualunque esperienza all’estero e il vecchio nonno in odore di demenza senile ha sempre ragione, persino quando pretende i termosifoni accesi durante il pranzo di una Pasqua caduta abbastanza alta. Ai giovani le briciole, gli avanzi di ciò che i nostri ascendenti stanno accumulando per garantirci un rigoglioso futuro cui non sappiamo se perverremo, incerto come una cospicua polizza furto e incendio che ti rimborsa soltanto se la tua vettura si infuoca sotto un’alluvione.

Erano anziani i vostri professori del liceo, sono anziani gli impiegati comunali, buona parte degli amministratori delegati che controllano l’economia del Paese ha problemi alla schiena.

La professione del giornalista dovrebbe, eppure, essere congenitamente immune dall’egemonia degli ottuagenari: viene letto chi sa reperire notizie interessanti e “arrivare” ai propri lettori fino a quando, per una ragione o per l’altra, non essendo più capace di appassionare, si fa da parte. Purtroppo, però, il mercato dei direttori di testata è meno flessibile del mercato dell’avorio e allora i vari De Bortoli, Mieli, Feltri e Belpietro si scambiano le poltrone in un gioco delle sedie a numero chiuso. Nell’ultimo ventennio, i quattro di cui sopra contano complessivamente circa quarant’anni di direzione tra Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Libero e Il Giornale. A Repubblica, invece, scalpita l’enfant prodige Ezio Mauro. Dal ’96.

Il grande giornalismo italiano sembra aver completato la stagionatura ma, se il nuovo che avanza risponde ai nomi di Beppe Cruciani e Nadia Toffa, forse ci si trova involontariamente costretti a rendersi conto che è meglio concedere una proroga ai predecessori.

Fortunatamente, nel Duemila non esistono unicamente televisione, radio e carta stampata. L’ultimogenito dell’informazione è il web che, emendato dai parossismi del personal publishing, svolge un servizio inimitabile, rapido e, soprattutto, forse davvero meritocratico. Le testate online stanno operando, non senza incidenti di percorso, un’autentica rivoluzione nel modo di offrire informazione professionale che sia di qualità. Tra i loro segreti, quello di disporre di un esercito di reporter freelance dalla notevole preparazione accademica, attivi sull’intero globo terracqueo e capaci di realizzare un’informazione moderna, fatta di articoli leggibili anche in metro o in coda alla cassa e non necessariamente al fuoco di un camino.

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Matteo Congregalli nasce a Milano nel 1992. Trascorre la propria adolescenza tra Como, Milano e Roma; terminato il liceo, si iscrive alla facoltà di giornalismo della University of Westminster. Negli ultimi tre anni ha collaborato come reporter, tra le altre, per testate online del calibro di VICE e The Post Internazionale. In pratica, l’intervista che segue vi spiega da dove proviene, come è prodotta -e, soprattutto, a che prezzo è divulgata- l’informazione che consultate quotidianamente su internet. In alternativa, potrebbe risultare un prezioso vademecum per coloro i quali aspirassero ad esercitare la professione di reporter oppure, semplicemente, per chi smani dalla voglia di visitare pericolose località esotiche. Controindicazioni: poiché l’intervistato ha realizzato il suo sogno professionale e deve ancora compiere trent’anni, le sue dichiarazioni potrebbero minare le certezze vittimistiche in cui si trincera chi imputa al sistema sociale tutti i suoi fallimenti e non ha mai provato a schiodare le natiche dalla sedia.

Raccontaci il tuo trascorso accademico alla facoltà di giornalismo della University of Westminster e le differenze che hai osservato tra la scuola giornalistica italiana e quella anglosassone.

“Mi sono trasferito a Londra perché considero eccessive le lungaggini dell’iter italiano per diventare giornalista. In Italia esistono poche scuole di giornalismo, le uniche valide, come la Walter Tobagi, presentano dei criteri di ammissione troppo selettivi, sono praticamente delle accademie d’èlite. In Italia, poi, per poter esercitare la professione necessiti imprescindibilmente del tesserino. In Inghilterra è l’esatto opposto: io ho realizzato i miei primi reportage già durante il corso di laurea, senza aver bisogno di alcuna licenza. L’ambiente accademico è fremente: impari più dai convegni o dai professionisti che incontri in campus che a lezione. Eppure, nonostante il mercato del giornalismo anglosassone sia così liberalizzato, il confronto sulla qualità dell’informazione pende tutto a loro favore, perché? Perché in Inghilterra praticamente non esiste informazione di partito quindi il tuo unico compito è quello di reperire le informazioni e saperle trascrivere, senza alcun filtraggio dovuto agli interessi politici del tuo editore. Peraltro non credere che una simile liberalizzazione del mercato dell’informazione comporti necessariamente uno scadimento della qualità, tutt’altro: la concorrenza tra reporter oltremanica funziona e funziona bene. Mentre in Italia il mercato è bloccato, e dunque le grandi testate commissionano reportage unicamente ai collaboratori interni, in Inghilterra gli editori verificano unicamente la bontà della tua idea e, qualora gli aggradi, ti danno il lasciapassare. In Italia fai il reporter, con le dovute eccezioni ovviamente, soltanto se possiedi un attestato, poco importa se tu sia bravo o meno, in Inghilterra fai il reporter se sei bravo, che tu possieda o non possieda un tesserino. Questo ti permette di poter realizzare un percorso di carriera più rapido. Lessicalmente, infine, mi sono convinto che la lingua del reportage sia l’inglese. L’ italiano è più elegante, senza dubbio, ma il sintetismo delle lingue anglofone è risorsa preziosa quando devi riassumere in meno di un migliaio di parole due settimane di reportage.”

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Qual è la differenza tra te ed un reporter tradizionale?

“Testate come VICE, a mio parere, hanno rivoluzionato il modo di fare informazione. Noi eravamo abituati al giornalismo da mezzobusto televisivo: parte il collegamento e vedi un inviato con il luogo del conflitto alle spalle che rende una breve sintesi di quanto sta avvenendo. Quell’ inviato è molto vicino al luogo del conflitto ma non è dentro al luogo del conflitto. I reporter di VICE rompono, invece, la c.d. “quarta parete” del giornalismo e si infilano nel cuore del conflitto: questo permette di reperire notizie di prima mano, esclusive. Noi ad oggi sappiamo, ad esempio, tanto sugli assetti politici ed istituzionali siriani ma nessuno sa niente su ciò che sta davvero succedendo tra le strade di Aleppo: gli unici ad averci fornito qualche informazione a riguardo sono coloro che le hanno percorse davvero, con tutti i rischi del caso. Ovviamente, poi, esistono dei segreti professionali che valevano ieri e valgono oggi. Per il mio primo grande servizio mi sono recato in un campo profughi per cristiani siriani al confine tra Siria e Turchia. Era la fine del 2013 e quelle persone erano strette tra la morsa dei fondamentalisti islamici, la minaccia dei bombardamenti americani ed il regime di Asad che, al più, nei loro confronti era neutrale: una situazione delicata. Hai davanti persone che hanno perso tutto ma la bravura del giornalista si rivela nella capacità di saper empatizzare con il loro dolore, costruirsi la loro fiducia, ma non farsi trascinare dalla tragedia e cercare di filtrare la verità: non è facile. Devi anche saper porre domande “scomode”, di modo che non ti caccino ma sempre facendo sì che non ti dicano solo ciò che gli aggrada. Poi, tornato in Italia, ho dovuto riassumere due settimane di permanenza in loco in un articolo di millecinquecento parole. È questo uno dei tanti compromessi che deve accettare chi scrive, professionalmente, su internet. Devi fare in modo di arrivare al maggior numero di lettori possibile, che poi generalmente è un pubblico molto giovane e facile ad annoiarsi, senza sacrificare la qualità di quello scrivi, senza sfociare in un linguaggio troppo colloquiale. Qui risiede la differenza tra il giornalismo online e i contenuti self-publishing o i blog.”

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Al termine dell’intervista, Matteo Congregalli ci ha confessato di essere in contatto con una delle più famose emittenti televisive all-news statunitensi. Ergo, potrebbe abbandonare definitivamente l’Italia. Personalmente, non posso auguraglielo, non perché non desideri che un ragazzo come lui percorra una carriera prestigiosa ma perché auspico che i reporter giovani e capaci possano realizzarsi restando in Italia. Parafrasando James Madison, “nulla è più irragionevole di fornire il potere ad un popolo disinformato”. Per trattenere sullo Stivale ricercatori farmaceutici, ingegneri e fisici sono necessari grandi investimenti strutturali, che, probabilmente, il “Governo degli ottanta euro” non è capace di realizzare. Perché rimanga in Italia un reporter come Matteo è invece sufficiente garantirgli una retribuzione adeguata, assicurargli un budget proporzionato(che non ammonta a cifre esorbitanti, egli stesso mi ha rivelato che per realizzare il suo reportage in Siria gli sono bastati meno di duemila euro) e accordargli una certa libertà di espressione. Qualcuno potrebbe fare il sacrificio, in nome della qualità dell’informazione.

Altrimenti, continuiamo a meritarci:

http://www.video.mediaset.it/video/iene/puntata/500012/toffa-quando-un-parrucchiere-ti-devasta-la-testa.html

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