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Ceci n’est pas l’amour

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11002053_10200291009393291_1513220614_oDi Federica Colli Vignarelli 

No, questo non è il solito pezzo smielato su San Valentino. E non è nemmeno il solito pezzo cinico su San Valentino. Questa è una sfida, di quelle che piacciono a noi finti letterati e pseudo convertitori di pensiero in parola, nel voler definire qualcosa di cui non conosciamo né la natura, né le cause, né il significato. O forse non è nemmeno questo. 

Tutto comincia da un numero indefinito di leggende che ruotano attorno a un ignaro vescovo umbro del 176 d.C., che cercò di convertire l’imperatore pagano Claudio II guadagnandosi dapprima quelli che oggi definiremmo arresti domiciliari e in seguito la decapitazione. Tutto estremamente romantico per Valentino da Terni, ma mai quanto gli aneddoti che lo vedono protagonista di rappacificazioni tra innamorati litigiosi o autore, in punto di morte, di uno struggente biglietto fatto consegnare alla figlia del proprio carceriere nel quale si firma “il tuo Valentino”. Praticamente la versione liturgica di Maria De Filippi.

Sì, perché a distanza di quasi duemila anni le nostre esigenze non sembrano essere poi così tanto cambiate. Qualche rito pagano di accoppiamento in meno, forse -il che non è per forza sinonimo di evoluzione- ma chiunque ci abbia creati non aveva certo in mente di realizzare creature autosufficienti. Anzitutto perché altrimenti ci avrebbe fatti un po’ meglio. Un po’ più belli, un po’ meno disagiati. Un po’ più completi, un po’ meno insoddisfatti. E invece no.

Siamo stati rovesciati sul pianeta con la stessa precisione con cui si rovescia un cesto di palle da tennis; da allora rimbalziamo randomici sulla terra rossa sperando di intercettare, in quel picosecondo di immobilità nel quale siamo sospesi a mezz’aria un attimo prima di cedere di nuovo alla gravità, un simile oggetto sferico giallo fluo che sia altrettanto sospeso, nello stesso istante, alla stessa altezza, e che trovi affascinante la nostra superficie ruvida e un po’ pelosa. È evidente che non sia facile. Il che porta sempre più spesso ad accontentarsi di rimbalzi un po’ più deboli, o un po’ troppo vigorosi, di gialli che hanno perso la loro fluorescenza perché hanno sbattuto troppe volte contro la rete. È questa, forse, la principale differenza con il passato. Loro avevano le palle, fuori da ogni metafora.

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Prendiamo Catullo. Catullo se l’era un po’ tirata, assegnando lo pseudonimo di Lesbia alla destinataria dei suoi componimenti. Fatto sta che lei, nobile e sposata con un console, non aveva neanche per l’anticamera del cervello di perdere il proprio tempo con un poeta “novus” considerato a quel tempo quanto Federico Moccia oggigiorno. Eppure lui cos’ha fatto? Non si è lanciato tra le braccia della prima vestale di passaggio, bensì ha continuato a omaggiare Lesbia con sonetti, epigrammi e passeri al grido di sentio ma soprattutto excrucior.

Per non parlare di Penelope. Regina, sola, con un marito che resiste al fascino femminile solo se lo legano agli alberi delle navi, un figlio adolescente e la casa piena di Proci. Chi gliel’ha fatto fare di tessere e sciogliere, giorno e notte, un artigianalmente discutibile tappeto per vent’anni? Passando per gli immancabili Dante e Leopardi, che se solo avessero avuto riscontro da quell’unica donna per la quale hanno ritenuto valesse la pena tormentarsi, forse non si sarebbero –rispettivamente– avvicinati alle droghe leggere e compromessi la colonna vertebrale, ma forse non avrebbero neanche scritto un Paradiso e un Infinito e le strade, oggi, non porterebbero i loro nomi.

Così come nessuno avrebbe conosciuto Jay Gatsby se non avesse cercato casa disperatamente al solo scopo di poter fissare una luce verde con lo stesso trasporto di un milanese bloccato nel traffico il venerdì sera. E cosa dire di lui, Sir Oscar Fingal Wilde. Irlandese, affascinante, con un ottimo senso estetico, paurosamente sarcastico e squisitamente misogino. Avrebbe potuto avere qualsiasi donna. O perlomeno avrebbe potuto fingere di volerne una, visti i tempi. E invece no. Sconta due anni di carcere e lavori forzati con la condanna di omosessualità; non solo: anziché maturare un comprensibile odio viscerale verso quel sentimento e chi l’ha causato, si spoglia di quella maschera da lui stesso sempre pubblicizzata e scrive ad Alfred Douglas una lettera tanto sentita da meritare il titolo De Profundis.

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Un tempo l’amore era come gli assegni, non trasferibile. Scatenava guerre, portava alla catarsi. Oggi non solo scatena like e porta nel migliore dei casi al sushi bar, ma è anche diventato come un indice di borsa: volatile. Possiamo anche sentircela e correre il rischio di acquistare un pacchetto azionario, ma nel dubbio ci copriamo con quelle sei/sette put perché abbiamo imparato che si fallisce anche con tripla A. In passato non c’erano le opzioni. In passato era bianco o nero.

Oggi c’è il grigio e purtroppo anche le sue cinquanta sfumature. Ma non a tutti servono le sevizie sadomaso di un uomo tanto potente quanto annoiato. Ad alcuni basterebbe quel soggetto con cui passare un’anonima domenica pomeriggio di pioggia ad ascoltare il sax di John Coltrane, sorseggiare blended whisky, scrivere a macchina la propria biografia, lasciarsi rapire da un colossal anni ’20 riflettendo sul decadentismo postmoderno e dipingere un quadro surrealista. La vittoria non starebbe tanto in questo, quanto nel poterlo intitolare “Ceci n’est pas l’amour”, sapendo di mentire.

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