Secondo un recente convegno dal titolo “Allenarsi per il futuro – Partnership scuola/lavoro” tenuto presso Robert Bosch S.p.A. (al quale ha preso parte anche una delegazione di nextPA) il 30% delle aziende italiane non assume a causa dell’incompatibilità tra domanda e offerta di lavoro. Il sistema scolastico gode, in Italia, di una fiducia quasi incontrastata: secondo un rapporto dell’ISS G. Toniolo realizzato dall’Ipsos, il 55% degli intervistati tra i 18 e i 29 anni assegna alle istituzioni scolastiche un giudizio positivo.
Lo scenario però, dal punto di vista aziendale e professionale, è critico. Specialmente se considerato alla luce del tasso di disoccupazione giovanile e della quantità di “NEET” (Not engaged in Education, Employment or Training”, ndr) cui spesso si fa riferimento. A lanciare l’allarme sono le aziende italiane, alle quali risulta spesso impossibile trovare sul mercato del lavoro giovani adatti a ricoprire i ruoli professionali di cui necessitano, facendo schizzare verso l’alto le percentuali di cui sopra.
È dunque evidente che la scuola italiana stia gradualmente perdendo la capacità di sfornare persone e figure professionali che possano essere competitive sul mercato del lavoro, italiano e non; i giovani pensano sempre più spesso che la soluzione migliore sia quella di lasciare il nostro Paese per rivolgersi, tra i più gettonati, al Regno Unito e a Londra in particolare. Ribaltando la prospettiva, è ancora più doloroso constatare che per ogni giovane che lascia l’Italia, il Bel Paese perde un’opportunità: il fenomeno degli italiani trasferitisi a Londra per motivi di lavoro rende la capitale britannica la sesta città italiana più popolosa, con stime di connazionali tra le 500 mila e le 700 mila presenze (un po’ come se Genova si trasferisse a Piccadilly).
In questa direzione va l’intervento del governo italiano, concretizzatosi nell’istituzione della riforma “#labuonascuola” in discussione in parlamento. Chi ha avuto la pazienza di leggerne il rapporto non avrà fatto a meno di notare un intero capitolo dedicato all’alternanza scuola/lavoro, oppure quello dedicato alla necessità di innovazione all’interno dei singoli programmi didattici scolastici (auspicando un aumento delle ore di informatica e inglese, rinnovando i corsi già esistenti a seconda degli istituti).
Anche i privati hanno fatto partire progetti in collaborazione con scuole e istituti professionali, inserendo programmi atti ad aumentare le competenze dei giovani attraverso stage aziendali retribuiti (si sottolinea l’importanza del compenso dietro la prestazione di competenze: il volontariato è un’altra fattispecie).
Il problema può sì essere attenuato da una simile riforma, ma si ritiene vi sia un problema sottostante più grave e complesso da gestire. È necessario un cambiamento nella cultura, specialmente nel metodo d’insegnamento: sono state fin troppo frequenti le ingerenze da parte dei docenti nel percorso formativo dei giovani. Per citarne qualcuna, l’evergreen “Signora suo figlio è bravissimo, lo iscriva al liceo” versus “Il ragazzo è intelligente ma non si applica, consiglierei un istituto professionale”.
Non è ammissibile che scelte e aspirazioni vengano condizionate (o addirittura compromesse) dalla pagella delle medie. È molto più efficace cercare di motivare una generazione di ragazzi affinché prendano la decisione più consona alle proprie capacità e inclinazioni, piuttosto che promuovere una “deriva licealista” che non servirebbe né al Paese né tantomeno ai demotivati studenti stessi.
La scuola italiana è in fondo alle classifiche OCSE per quanto riguarda i livelli di istruzione e preparazione dei giovani nel momento in cui si inseriscono nel mercato del lavoro. Alcuni passi in avanti sono stati attuati o sono in via di definizione, ma senza un cambiamento radicale del modo di concepire l’istruzione possiamo solamente acquistare un biglietto di sola andata per Heathrow.
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