Di Carolina Lanzi
In inglese whitewash è una pittura murale bianca a base di calce, da cui deriva il verbo whitewash, imbiancare.
In senso figurato, l’espressione whitewashing descrive i tentativi di nascondere la verità su persone, organizzazioni o prodotti per proteggerne la reputazione o farli apparire migliori di quanto effettivamente siano. In inglese la metafora non è tanto quella di “ripulire” o “lavare” quanto di “ricoprire” per occultare, quindi anche “conferire una patina” sotto cui però rimane il problema.
Da qui nasce il termine greenwashing che rappresenta la condotta di quelle imprese che si dipingono come società green e fingono di operare nel mercato nel rispetto della collettività riducendo quanto possibile l’impatto ambientale.
Quale azienda non vuol fregiarsi della sostenibilità del suo impatto ambientale?
Oggi i consumatori sono felici di potersi identificare in marchi che offrono beni e servizi realizzati da aziende ecosostenibili e sono certamente incentivati ad acquistare auto che rispettano la normativa ambientale senza compromettere le prestazioni di guida e il design. Un mix vincente che il colosso tedesco Volkswagen riusciva a garantire ai suoi fedeli clienti.
Dal 18 settembre però molte cose sono cambiate e sembra proprio che nella trappola del greenwashing ci sia caduta la compagnia automobilistica tedesca che, infatti, dal 6 ottobre non farà più parte del Dow Jones Sustainability Index.
Nello scenario attuale l’impresa non può più permettersi di limitarsi alla sua funzione produttiva, trascurando gli interessi del territorio e della comunità circostanti. Talvolta fiancheggia l’autorità statale nel portare avanti azioni sostenibili sino a sostituirla laddove sia necessario promuovere politiche di responsabilità sociale e ambientale lungo la catena di produzione transnazionale.
Per queste ragioni, prendendo in considerazione uno di quei colossi che popolano il settore automobilistico, Volkswagen -“la vettura del popolo”- dovrebbe sentirsi profondamente in dovere di agire nella massima trasparenza di fronte all’intera comunità degli stakeholders ed essere prima della classe nel rispetto delle leggi e delle regolamentazioni vigenti.
Ciò che è successo scuote il mondo intero: truccare i propri prodotti per eludere le direttive statunitensi antismog non si esaurisce nel reato di frode, per il quale l’ex CEO Winterkorn è sotto indagine. Il raggiro tradisce milioni di clienti fidelizzati nel tempo, inferisce un grave colpo al mercato finanziario, genera incertezza e scompiglio tra gli investitori (perché non si sa ancora di preciso quante imprese siano effettivamente coinvolte) e causa una ferita che la Germania, a prescindere dalle ottimistiche previsioni del ministro Schauble, farà fatica a rimarginare.
Michael Porter, in un articolo pubblicato sull’Harvard Business Review, parla di Creating Shared Value, un interessante concetto a proposito delle cattive condotte delle imprese nel perseguire politiche di sostenibilità.
Spiega Porter che il fattore scatenante del problema greenwashing è l’aria di tensione che si sprigiona quando i governi emanano delle direttive e dei parametri ai quali le imprese di un determinato settore devono sottostare e allinearsi.
In queste circostanze, le imprese non rivestono un ruolo attivo e partecipativo ma sono costrette a recepire passivamente le indicazioni della classe politica.
Peraltro il rispetto della normativa non è per nulla immediato: c’è chi agisce prontamente e chi invece risulta più restio al cambiamento, c’è chi anche se in ritardo decide di adeguarsi e chi invece trova il modo di mascherare quello status quo al quale è radicato e di raccontare agli stakeholders fandonie illusorie, fuori dal reale.
Già, perché se emergesse patentemente la trasgressione delle normative, la società sarebbe spazzata via dal mercato. Se non si vuole sposare il cambiamento, bisogna indossare una maschera, recitare un copione con clienti, fornitori, autorità e la collettività nel suo complesso.
Le logiche che muovono un’impresa sostenibile sono caratterizzate da atteggiamenti collaborativi e improntati al rispetto della legalità e della crescita a lungo temine. Una volta che le autorità statali stabiliscono parametri, obiettivi e linee guida, l’impresa responsabile deve farsi trovare pronta e agire attivamente nel rispetto di tali valori.
L’errore commesso da gran parte delle imprese oggi è quello di limitarsi ad adeguarsi alle modifiche sulle normative ambientali impartite dall’esterno e a farlo rapidamente, meglio dei concorrenti, procedendo a piccoli passi attraverso evoluzioni incrementali.
I migliori analisti suggeriscono invece di adeguarsi alle esigenze di sostenibilità sfruttando il proprio know how interno per rintracciare soluzioni radicali e di stimolare la sensibilità tecnologica a ogni livello della “piramide” aziendale. Così che tutti i dipendenti, dai dirigenti agli operai, siano incentivati a migliorare sotto l’effigie della compatibilità ambientale.
La ricerca e lo sviluppo sono stati travolti dal vortice della globalizzazione per fare spazio alla più spietata delle guerre di prezzo: nonostante non ne siano gli unici artefici, si tratta di due fattori fondamentali per il conseguimento del “creating shared value” (CSV). Obiettivo primario di un’impresa, secondo tale modello di business, sarebbe la crescita congiunta dell’azienda, del territorio e della componente umana circostante e interna. Il CSV, secondo Porter, non è semplice strumento di miglioramento dell’immagine di un marchio, bensì un valore fondamentale affinché l’impresa possa avere successo. Come si può pensare di preservare il mondo se nel contempo non si cresce e non si crea valore?
Il CSV si applica, però, quasi esclusivamente a una prospettiva di lungo termine, orizzonte da tempo cancellato dai progetti strategici delle società. Economia e tecnologia trascurano tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati perché gli unici risultati richiesti dagli investitori sono quelli realizzati in un paio di mesi. Altrimenti si finisce per annegare nel mare vischioso del mercato finanziario.
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