di Enrico Anedda Grimaldi
Studiare il latino alle superiori è una cosa inutile: questo concetto è ormai diventato il mantra di qualsiasi studente che si rispetti. Per chi come me ha fatto il liceo scientifico sperimentale, poi, il latino era la cosa più distante dal nostro mondo fatto di matematica, chimica e fisica. Già le letterature straniere sembravano a giorni alterni una bestemmia contro la nostra impostazione mentale, figuratevi leggersi quei mille ragionamenti pindarici di Cicerone. E così in tanti abbiamo spesso liquidato come inutili quei preziosi insegnamenti.
Interessante il fatto che questa nenia non sia cambiata nemmeno all’Università. Certo non è più il latino a essere nel mirino di noi studenti che abbiamo fatto della pragmaticità il nostro modus operandi (Oddio ho davvero usato il latino?!).
All’università il mantra è rimasto pressappoco lo stesso: qualunque amico neolaureato ci racconta costantemente come i corsi non gli siano serviti praticamente a nulla nel mondo del lavoro, perché insomma, “quel che ti serve lo impari facendo/si impara sul campo”.
Ma è davvero così? Passiamo le nostre giornate a studiare solo cose che esauriscono la loro utilità appena consegnato il compito all’esame?
Il mio professore di Monetaria ci ripete spesso che ci sono alcune cose che uno studente di economia dovrebbe conoscere per potersi laureare, perché senza questi insegnamenti fondamentali una laurea è solo un pezzo di carta; anche in Bocconi. Lui le chiama “le Tavole della Legge”, ma invece di essere scolpite nella pietra, si suppone che siano scolpite nella nostra mente, o almeno sulla cover dell’iPhone.
La regola più importante da lui osannata è il famigerato “DIPENDE”. Ogni studente della Bocconi riceve questo sacramento alla prima lezione del primo anno, solitamente tramite il professor Panunzi, il quale profetizza il Verbo con alle spalle i grafici delle curve di indifferenza e di utilità. Una volta ricevuta la pergamena dal Magnifico Rettore, si deve rispondere “dipende” a qualsiasi domanda, dal “Mi ami?” della vostra ragazza al classico “Hai mangiato?” che ogni nonna del Sud pronuncia ancora prima che voi abbiate fatto in tempo a rispondere al telefono (quando vi chiama).
Tra gli ulteriori comandamenti ci sono poi le derivate (fino ad arrivare alle derivata settima per quelli del Cles), la differenza tra azioni e obbligazioni se fai finanza (è il mio caso).
Vorrei però soffermarmi su un insegnamento tanto fondamentale quanto, a mio modesto parere, pratico: la regola dell’arbitraggio. Finora è un dogma riconosciuto solamente da pochi eretici, ma nel corso di finanza è quasi una tortura. L’arbitraggio vi accompagna dalle chiacchere da bar sul fatto che Beckham sia andato a giocare a Dubai, “che si sa, anche se qui non potrebbe più giocare, lì prende un sacco di soldi” allo sguardo ai prezzi della benzina tornando a casa, “la metto vicino a casa, che costa meno”.
In quanto studenti di Economia, ci sentiamo abbastanza competenti su queste materie, perché sì, le abbiamo studiate e in fondo le capiamo meglio degli altri. Se vi dicessi che all’Apple Store si potrebbe pagare l’ultimo iPhone la metà del prezzo se solo si passasse dalla porta sul retro, non solo rideremmo di chi entra dall’entrata principale e lo paga a prezzo pieno, ma probabilmente dopo una decina di minuti staremmo allestendo un banchetto davanti all’ingresso, rivendendo i telefoni appena acquistati dalla porta posteriore.
Ecco. Siamo fatti così. In Bocconi ci sentiamo furbi, e forse lo siamo pure. Forse.
Forse però c’è qualcuno più furbo di noi: la direzione della mensa sotto la biblioteca. Perché nonostante studiamo nella migliore università d’Italia, nonché una delle migliori d’Europa e del mondo, loro riescono sempre a farci pagare la bottiglietta d’acqua 70 centesimi, nonostante l’aula fumo sia solo a pochi passi e lì costi circa il 70% in meno.
Ah, maledetto latino!
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