Di Carolina Lanzi
Agiscono contro la moralità e l’etica, servendosi dello scudo che il capitalismo ha contribuito a rendere invulnerabile e rigoroso: lo sviluppo, la crescita dell’economia e la soddisfazione di una domanda di consumo che si fa via via sempre più crescente.
Gli incendi che dallo scorso luglio si stanno consumando in Indonesia rappresentano una piaga per la Nazione, un abuso che si ripete indisturbato da tempo: ma qual é la vera causa, chi è il vero artefice dell’abominio che sta impressionando questo Paese?
Nelle regioni secche, le paludi rivestono un ruolo molto importante poiché, per le loro caratteristiche, rappresentano l’habitat ideale per numerose specie vegetali e animali molto rare creando un ecosistema particolarissimo e vantando una delle più grandi ricchezze di biodiversità al mondo.
Le foreste pluviali dell’Indonesia si sviluppano su un terreno intriso d’acqua e caratterizzato dalla presenza di torba; quest’ultima se essiccata acquista le proprietà di un combustibile e di conseguenza diventa una potente e allarmante fonte di anidride carbonica.
Le zone protagoniste di questa drammatica situazione sono principalmente l’isola di Sumatra e la parte sud di Kalimantan ma l’allarme sta progressivamente interessando le regioni e i Paesi confinanti.
Il sorgere del problema risale agli anni 70 quando il governo indonesiano pose sotto il suo controllo 140 ettari di terreno con le relative risorse.
Inevitabile, con la globalizzazione e la crescita economica, è stato il passaggio di tale controllo dallo “Stato” ai colossi industriali della carta e dell’olio di palma che hanno accolto con entusiasmo l’opportunità di convertire tali aree in zone adatte alle loro coltivazioni così da incrementare la produttività.
Le caratteristiche del suolo andavano però corrette in modo tale da rendere lo stesso più fertile e la scelta di appiccare incendi sembró fin dall’inizio la strada più economica ed efficace da percorrere.
Ad oggi secondo la Banca Mondiale l’Indonesia è il terzo Paese per emissioni di gas serra: l’85% proviene dall’agricoltura e di questa porzione il 25% deriva da tali incendi volontari.
Nonostante le nobili parole, gli investimenti e le politiche improntate sulla sostenibilità, i media e i governi non sono sembrati affatto interessati a rendere noto questo scempio, reso ancor più grave dal fatto che il pericolo fosse causato non da fenomeni naturali quanto piuttosto da atti dolosi dell’uomo.
Quest’anno, come nei precedenti d’altronde, si è continuato con l’attività di conversione delle foreste e l’Indonesia ha ripreso a subire violenze: ma stavolta qualcosa è cambiato.
In passato il fuoco era fortunatamente domato dalle piogge che riuscivano a limitarne la portata: l’arrivo di El Nino (fenomeno metereologico che provoca duri periodi di siccità) ha profondamente inasprito la questione privando il Paese della sola fonte di acqua che manteneva, seppur precario, un illusorio equilibrio.
Negli scorsi mesi e fino a pochi giorni fa (ora le piogge si stanno facendo via via più frequenti) l’aria era irrespirabile e soffocata da una foschia tossica che aveva paralizzato l’intera società provocando la chiusura di scuole, aeroporti e obbligando 6 province a dichiarare stato di emergenza; la nebbia ha raggiunto anche la Malesia, le Filippine, la Thailandia e Singapore.
Vittime di questo crimine sono certamente gli indigeni che si sono visti strappare via la terra sotto i loro piedi, che sono costretti a indossare mascherine per poter circolare fuori di casa: i morti sono stati 19 ma sono 500 mila le persone alle quali sono stati rilevati infezioni alle vie respiratorie.
Ancora, vittime di questo crimine sono gli animali che vivono le paludi e ai quali la follia umana sta sottraendo spazio vitale. Gli Orangutan, animali simbolo del Borneo, sono evacuati dalle foreste in cerca di corsi d’acqua e cibo esponendosi altresì al pericolo dei bracconieri.
Le autorità indonesiane non lasciano troppo spazio per studiare con attenzione il caso, è difficile comprendere i confini della legalità che circoscrivono questa condotta spartana e per di più per quanto ci si stia mobilitando per sensibilizzare le industrie produttrici di olio di palma e di carta affinché combattano contro queste pratiche selvagge e letali chi è invece inarrestabile è l’insieme frammentato dei piccoli coltivatori che agiscono inosservati e senza interferenze. È spaventoso come il Governo locale sembri incentivarli in questi atteggiamenti distruttivi, a loro è riconosciuto il diritto di bruciare al massimo 2 ettari di terra grazie al “land economic fee” così da poter accrescere il valore dei terreni. Le industrie sono infatti disposte a pagare prezzi maggiori qualora esso sia già pronto per la coltivazione.
Il 30 novembre è tenuta a Parigi la ventunesima Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Mi chiedo però come si possa avere fiducia nei vertici dell’incontro quando di fronte a questo inferno di fiamme e di disperazione ad emergere è soltanto una sconfortante miopia istituzionale.
È stato definito il più grande disastro ambientale del ventunesimo secolo, secolo che vede i diritti inviolabili dell’uomo calpestati da quelli del consumatore: sì perché l’uomo del nostro Tempo è prettamente un consumatore che sbrana chi a lui si oppone e si fa spazio tra i più deboli e vulnerabili pur di soddisfare i propri bisogni.
Un’economia in equilibrio vede domanda e offerta che si incontrano, ma se il prezzo da pagare è la devastazione, forse il buon senso dell’essere umano deve tener presente che, di fronte a tali questioni, la domanda dovrebbe essere regolata secondo coscienza.
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