Leggere il nostro tempo con una lente nuova
Di Lorenzo Diaferia.
Che sia reale o nominale, calcolato con il metodo della domanda finale o del valore aggiunto, il PIL è la grandezza economica più usata – e abusata – del nostro tempo, “il numero più influente del mondo” come lo definisce l’economista Philipp Lepenies. La storia di questo indicatore economico inizia nel periodo rinascimentale, quando l’inglese William Petty ne delinea un primo abbozzo mosso da uno scopo personale tanto particolare quanto tristemente diffuso: pagare meno tasse. Vista dunque la sua longevità, sembra surreale che fino a circa 90 anni fa il PIL sia stato una voce di cui nessun Paese riteneva di doversi curare più di tanto. Ora tutto è cambiato rispetto a quei tempi, tanto che con molta difficoltà si guarda un telegiornale o si legge un quotidiano senza incappare nell’arcinoto acronimo.
Ma se fino a pochi anni fa la capacità del PIL di approssimare con buona affidabilità il divenire economico di un paese, e dunque la sua dimensione sociale, non era in discussione, oggi è davvero ancora così?
Un numero crescente di istituzioni e accademici sembrano non pensarla più in questi termini. Negli ultimi anni è infatti nata una folta schiera di indicatori di benessere alternativi, che sembrano non riconoscere più quella identità, tanto radicata nell’economia tradizionale, tra progresso economico, dimensione sociale e qualità della vita.
Tra i tentativi di elaborare strumenti più adatti alla comprensione del nostro tempo uno di questi in particolare salta all’occhio per la sistematicità delle sue basi teoriche, il rigore del suo approccio e l’attenzione che è riuscito a guadagnarsi sulla scena internazionale. Si tratta del SPI, il Social Progress Index, un indice lanciato in una versione beta su un campione di 50 stati nel 2013 e che dal 2014 è divenuto una catalogazione coerente ed organica che include 133 nazioni e abbraccia il 94% della popolazione mondiale. Pur con qualche cambiamento, la struttura generale del Social Progress Index è rimasta fondamentalmente immutata negli anni. Risulta strutturato in 3 macro variabili – Basic Human Needs, Foundations of Wellbeing e Opportunity. Queste si compongono a loro volta di indicatori più specifici per un totale di ben 52 voci di analisi, ognuna valutata con un punteggio da 0, attribuito alla peggiore performance rilevata, a 100, in corrispondenza della migliore. Acceso sanitario, libertà di stampa ed espressione, coesione sociale, qualità della rete elettrica e internet, corruzione percepita, sostenibilità ambientale, istruzione e housing sociale sono alcuni esempi dei parametri considerati.
Tra i principi metodologici chiave di questa ambiziosa iniziativa due risultano di particolare interesse: la totale indipendenza da indicatori economici e il focus sugli outcome piuttosto che sugli input. Da una parte infatti, grazie ad una misurazione diretta del benessere sociale che prescinde da approssimazioni economiche, l’indice si presta ad essere comparato con il tradizionale PIL per coglierne eventuali correlazioni statistiche. Dall’altra, vista l’attenzione verso gli output, ciò che conta non sono gli investimenti destinati ogni anno dai governi a questa o quella voce del bilancio pubblico bensì i risultati tangibili a cui sono esposti i cittadini nel quotidiano.
Qualora la diffusione del nuovo indicatore diventasse tale da poter competere per fama con indici ben più tradizionali e radicati, la speranza è che sempre più governi impostino i loro obiettivi sui parametri del SPI. A quel punto, l’attenzione si sposterebbe in maniera crescente sulla qualità e fruibilità dei servizi in esame, non limitandosi ad un impegno nella fase di input ma seguendo con più regolarità gli output delle iniziative sociali. Segnali confortanti in questo senso emergono – tra gli altri – dal governo del Paraguay, che nel suo cammino verso il 2020 ha deciso di porsi target specifici proprio per alcune voci del Social Progress Index, utilizzandolo per la prima volta insieme al PIL nella valutazione dell’efficacia delle sue politiche socioeconomiche. Peraltro, la dimostrazione della validità di un punto di vista nuovo anche in realtà vicine all’Italia, giunge anche dalla Commissione Europea che ha di recente avviato una task force per la redazione di un indicatore studiato appositamente per le macro regioni dell’Unione. Chissà, un domani forse anche lui potrà ambire ad influenzare le linee politiche di Bruxelles.
Forse in futuro, con priorità cambiate o solo più chiare, capiterà che sfogliando un giornale l’occhio cadrà naturale non più “sul numero più influente del mondo”, ma su tre lettere maiuscole alle quali non siamo ancora abituati. Tre lettere che si affacciano oggi al mondo non con la presunzione di chi vuole sostituire qualcosa, ma con la lungimiranza di chi vuole integrare e migliorare l’esistente.
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