Di Xhuliano Dule.
Il 4 dicembre gli italiani sono chiamati alle urne, per esprimere il loro giudizio sulla riforma costituzionale votata dalle Camere. Il Referendum non dovrà raggiungere il quorum per essere valido. L’obiettivo proposto dalla Riforma è quello di rispondere alle istanze di rinnovamento della Costituzione Italiana, ponendo fine (forse) ad una lunga storia di proposte riformatrici che si sono susseguite dalla commissione Bozzi (‘83-‘85) fino ai giorni nostri. Il dibattito fino ad oggi ha assunto toni partigiani, i sostenitori dell’uno e dell’altro schieramento si stanno sfidano a colpi di slogan, spesso però senza fornire sostanza ad un confronto che di sostanza dovrebbe nutrirsi. A questo punto è lecito chiedersi che cosa significhi davvero questa riforma e se sia possibile farsi un’idea senza cadere nei “faziosismi” dei vari schieramenti politici che hanno fatto di questo dibattito l’ennesimo palio elettorale.
Il 10 novembre, il dibattito tra il Professor Enzo Cheli (per il NO) e il Professor Stefano Ceccanti (per il SI), avvenuto a SciencesPo e moderato dal sociologo Marc Lazar, ha cercato di rispondere positivamente a queste domanda. La poco gloriosa storia di questo referendum è, ormai, consegnata alla cronaca e ha avuto come unico effetto quello di spostare l’attenzione dalla sola questione di cui si dovrebbe discutere durante un processo di riforma costituzionale: la riforma stessa.
SI o NO, o Non so. Come i foglietti che si usava mandare alle elementari, dove semplici domande erano seguite da quadratini. E se all’epoca le motivazioni che portavano a rispondere in un modo o nell’altro si basavano su futili canoni estetici questa volta, indipendentemente dalla risposta, è necessario scostare leggermente il velo di Maya e addentrarsi più a fondo nella problematica questione.
Perché dire NO.
Secondo il professor Cheli, questa riforma ha subìto un processo di drammatizzazione. Abbiamo assistito da entrambe le parti ad accorate difese o presagi sul destino del in un caso o nell’altro. Questa melodrammaticità, forse anche amplificata dai media e dalla rincorsa giornalistica della sensazionalità, non rispecchia però il peso reale di questo voto; indipendentemente dall’esito, la democrazia italiana continuerà a sopravvivere e il Sole, per citare Obama, sorgerà comunque. La domanda che dobbiamo farci è semplicemente se la riforma sia o meno una buona riforma. Secondo il professor Cheli, la critica deve articolarsi su tre punti: Il metodo, il merito e gli effetti prodotti.
Il metodo
Le costituzioni sono patti sociali di lunga durata, sono le regole del gioco con cui la partita democratica si svolge. La funzione di queste regole è incredibilmente importante per un Paese: permette la coesistenza pacifica di diverse fazioni e regola come interessi contrastanti vengono mediati dalle istituzioni in politiche pubbliche. Le costituzioni sono norme che dovrebbero trascendere i conti spiccioli delle maggioranze. Ed è proprio il metodo con cui si è giunti a questa riforma che la rende criticabile. L’istanza di riforma è un completamento del progetto politico, iniziato con la riforma elettorale -oggi ampiamente dibattuta- per garantire una maggioranza a quella che di fatto, in un sistema partitico cosi frammentato come quello italiano, risulta essere la maggioranza delle minoranze. È una riforma quindi divisiva nella genesi e nella formulazione e, da come è stata accolta nel paese, i frutti della discordia sembrano essere già maturi.
Il merito
Il secondo motivo per cui secondo il professore questa riforma non può essere considerata positivamente sono le soluzioni che propone alla diagnosi che lui stesso condivide. Se è vero che è necessario superare il peculiare e ormai datato sistema del bicameralismo paritario, fornire una soluzione alla deriva normativa della decretazione d’urgenza che ha finito per caratterizzare lo stile legislativo italiano e risolvere quella confusione prodotta dalla riforma del Titolo V, è altrettanto vero che il nuovo testo costituzionale presenta tre principali problemi che non permettono di raggiungere gli scopi prefissati. Secondo l’opinione del professore, sono:
-Il nuovo senato
Innanzitutto la composizione risulta molto bizzarra, la scelta di fornire un doppio mandato a ben 86 membri ne riduce le realistiche capacità di funzionamento. Consiglieri regionali e sindaci sono chiamati a recarsi a Roma per due volta a settimana, per esercitare un compito per cui i senatori non percepiranno uno stipendio. Inoltre questi rappresentanti saranno investiti di compiti che poco hanno a che fare con la rappresentanza delle autonomie locali, come la ratifica dei Trattati Europei e l’elezione del presidente della Repubblica. La riduzione del numero dei senatori, seppur una buona iniziativa, non viene accompagnata dalla riduzione dei deputati, creando di fatto preoccupazioni per il delicato equilibrio delle istituzioni che in seduta comune dovranno trovarsi ad esercitare funzioni fondamentali per il funzionamento della Repubblica, come l’elezione dei membri degli organi di garanzia dello stato.
-Articolo 70
Il nuovo testo legislativo darebbe vita a ben otto tipi diversi di produzione legislativa, senza contare che le leggi bicamerali non eliminano del tutto la “navetta” il processo di eterno ritorno di una legge da una camera all’altra, oggi incriminato di essere il responsabile del ritardo legislativo definita dal professor Cheli un vero e proprio “ginepraio”. La cosiddetta semplificazione in realtà finirà per produrre conflitti che dovranno essere giudicati dalla corte costituzionale, incrementando sensibilmente il lavoro di un organo che non dovrebbe essere sollecitato a produrre decisioni frettolose.
-Competenze Stato e Regioni
La riforma del “Titolo V” aveva conferito nel 2001 alle Regioni la funzione legislativa su alcune materie (le grandi opere, il turismo etc.) che non sarebbero mai dovute essere sottratte alla competenza dello Stato. Se questa riforma riporta ordine da questo punto di vista, contemporaneamente però elimina la legislazione concorrente e introduce il principio di esclusività, fraintendendo la principale fonte del conflitto tra Stato e Regioni. La riforma ha uno scopo ossimorico: da un lato, giustamente, riduce i poteri delle Regioni (per esempio nel riconsegnare allo stato la supremazia su tematiche come l’istruzione e la sanita’), ma dall’altro ne eleva i poteri al centro del sistema (per esempio attraverso l’inclusione dei consiglieri regionali nella votazione degli organi di garanzia dello Stato).
Effetti:
Complessivamente votare sì significherebbe votare per un testo costituzionale lontano dalla chiarezza e dalla completezza richieste ad una Costituzione ed avviarsi verso la costruzione di un sistema bizzarro e squilibrato che, seppur nobile nelle intenzioni, è abbastanza confuso nelle soluzioni. Per chiudere con una battuta: RIFORMA SI, MA NON COSI.
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