di Daniel Borgogni e Pietro Faggiana.
Lungi dal voler paventare scenari apocalittici o fiumi di latte e miele, a seconda del risultato, è indubbio che questa data segnerà in modo indelebile la storia politico-istituzionale della Repubblica Italiana. Pochi pare se ne siano accorti.
A giudicare dal livello del dibattito concernente le riforme costituzionali e da molte delle argomentazioni diffuse tra l’opinione pubblica, emerge una estesa irresponsabilità della classe dirigente; certamente non all’altezza del momento storico.
L’intenzione di chi scrive, senza presunzione alcuna, non è tanto quella di accreditare o meno una certa tesi, quanto piuttosto quella di sgomberare il campo da argomentazioni superficiali, incoerenti od assurde, che non hanno ragion d’essere oltre la contingente opportunità politica.
Il voto, ai sensi dell’art. 48 della Costituzione stessa, è “personale ed eguale, libero e segreto”. Non esiste libertà senza consapevolezza.
Testo del quesito referendario
« Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016? »
È questo il quesito referendario su cui saranno chiamati ad esprimersi gli italiani il 4 Dicembre. Il testo è stato oggetto delle più eterogenee critiche da altrettanto eterogenee formazioni politiche. Una valutazione sul merito impone però un’analisi che vada oltre il mero senso comune o i dibattiti da salotti televisivi.
L’istituto della consultazione popolare per le leggi costituzionali, previsto ex articolo 138 della Costituzione, trova attuazione nella legge 352/70 che all’articolo 16 indica tassativamente la formula del testo da sottoporre al voto (“Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente…”). La prassi instauratasi con i referenda costituzionali del 2006 (Riforma Berlusconi) e del 2001 (Riforma Titolo V) ha poi chiarito, ed è appena il caso di ribadirlo, come l’oggetto del quesito referendario vada individuato nel titolo della legge. Non si capisce dunque per quale ragione sullo stesso non sia stata espressa alcuna riserva precedentemente; di certo non si può lamentare un’assenza di occasioni alla luce delle sei letture parlamentari in due anni.
Da aggiungersi inoltre che la garanzia della legittimità e della conformità all’art. 138 Cost. del quesito è rimessa alla valutazione (ex articolo 12 l. 352/70) dell’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione, espressosi favorevolmente con ordinanza 08/08/16.
Certo taluni potrebbero dubitare della terzietà ed imparzialità della Suprema Corte, ma nemmeno le più articolate tesi complottistiche dei pentastellati potrebbero immaginare la vicinanza al Presidente del Consiglio di ognuno dei 26, dicesi ventisei[1], componenti dell’Ufficio Centrale per il referendum.
Democrazia diretta
Critiche sono state mosse sull’innalzamento del numero di firme necessario alla proposta di leggi d’iniziativa popolare. All’articolo 11 la riforma costituzionale aumenta il numero delle firme previste dall’art. 71 Cost. da 50.000 a 150.000. Una lettura superficiale della disposizione potrebbe turbare i paladini della democrazia diretta, tuttavia poche semplici osservazioni rivelano una diversa natura della norma.
In primis è necessario prendere in considerazione l’incremento demografico che ha caratterizzato il nostro paese dal ’48 ad oggi. La richiesta di firme, che parrebbe triplicata rispetto alla vigente normativa, va in realtà valutata alla luce degli aventi diritto nei due diversi momenti storici. Alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 avevano diritto di voto 29.117.554 italiani, contro gli attuali 50.786.340 del referendum del 17 aprile 2016. Se consideriamo dunque il rapporto tra firme richieste ed aventi diritto, l’incremento percentuale è di poco superiore a un decimo di un centesimo.
Non solo, a fronte di tale riforma, per la prima volta nella storia repubblicana, viene introdotta la garanzia della discussione e della deliberazione delle proposte di legge d’iniziativa popolare (“la discussione e la deliberazione conclusiva […] sono garantite..” – Nuovo art. 71 comma 2 Cost.).
Da far notare ai paladini di cui sopra gli insoddisfacenti risultati finora raggiunti dal vigente articolo 71: ad oggi meno della metà delle leggi d’iniziativa popolare viene anche solo discussa dal Parlamento e appena l’1% di queste ha trovato approvazione.
Illegittimità del parlamento
Un parlamento costituzionalmente illegittimo, si fa costituente. Secondo diverse opinioni, talune delle quali pure autorevoli, il problema della riforma non si limita alla stessa, ma sta ancor più alla radice.
La Consulta, con sentenza 1/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del c.d. “Porcellum”, ovverosia la legge elettorale in forza della quale è stato eletto il Parlamento attuale. In virtù di ciò, è credenza diffusa che un Parlamento siffatto debba limitarsi a legiferare nelle materie necessarie ed urgenti all’elezione di un’assemblea rappresentativa, sulla cui legittimità non possano esservi ombre.
A ben vedere tuttavia la Corte Costituzionale, nella medesima sentenza, non ha solamente dichiarato la nullità della legge elettorale, ma si è altresì occupata degli eventuali limiti all’attività legislativa dell’organo con questa eletto:
“È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.”
È sorprendente come di fronte a un inciso della Corte tanto chiaro, persistano ad oggi dubbi di legittimazione.
Non è peraltro possibile neppure argomentare un’eventuale imprevedibilità di venture riforme costituzionali: il deposito della sentenza risale al 13 gennaio 2014; già dal 15 marzo 2013 era in discussione al Senato un disegno di riforma costituzionale[2].
Al solito la classe dirigente di cui sopra, riferendosi solo parzialmente ed incoerentemente ad taluni passaggi della sentenza, non manca di dimostrare tutta la parzialità e superficialità di un giudizio spesso egoistico, raramente responsabile.
[1] Siotto, Cortese, Nappi, Bernabei, Grillo, De Bernardinis, Amoresano, Bielli, D’Isa, Novik, Tardio, Bonito, Bianchini, Izzo, Bronzini, Travaglino, Gianesini, Di Iasi, Petitti, D’Antonio, Armano, Parziale, Ciampi, Virgilio, Citterio, Frasca.
[2] Annunciato nella seduta ant. n. 1 del 15 marzo 2013.
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