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Né “fuga di cervelli” né “allarme invasione”, la vera sfida sul tema delle migrazioni è la corsa ai talenti.

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Di Andrea Pradelli

IMG_0156La fuga dei cervelli nel dibattito pubblico
Negli ultimi anni il tema della cosiddetta “fuga dei cervelli” ha conquistato un ampio spazio nel dibattito pubblico, fino a diventare in un certo senso il simbolo del declino del nostro paese: crisi, nepotismo e corruzione costringono i giovani a cercare fortuna all’estero.
L’impoverimento a livello di capitale umano che ne consegue sembrerebbe indiscutibile. Il rapporto “Italiani nel mondo 2016” presentato dalla Fondazione Migrantes rileva che nel 2015 ben 107 529 connazionali hanno deciso di espatriare, con un incremento del 6,2% rispetto all’anno precedente. Il 36,7% di queste persone erano giovani dai 18 ai 34 anni.
Altre statistiche mostrano che ogni anno il nostro paese perde circa 3 mila ricercatori, spesso tra l’altro formati nelle università e nelle scuole pubbliche italiane a spese dei contribuenti. Mantenendo questo trend dal 2010 al 2020 l’Italia subirebbe la perdita di 30 mila ricercatori, la cui formazione è costata circa 5 miliardi. Inoltre i sondaggi mostrano che circa il 63% per cento di questi ricercatori non ha intenzione di tornare in patria: essi quindi contribuiranno quindi non solo all’impoverimento economico e culturale del nostro paese, ma anche all’incremento del gap con i paesi stranieri.
I governi italiani hanno tentato varie volte di attuare programmi per il rientro in patria di questi “cervelli”, ma i risultati non sono stati esaltanti. Il primo, del 2001, ha portato al rientro di soli 466 studiosi costringendo Silvio Berlusconi a sospenderne il finanziamento nel 2006. Lo stesso Berlusconi ha tentato di contrastare il fenomeno con la Legge Controesodo del 2010 e il progetto “Giovani ricercatori Rita Levi Montalcini” nel 2009, ma i risultati sono stati molto modesti, rispettivamente 7 mila (il risultato migliore) e 103.

Il confronto con il resto dell’Europa: dati assoluti e dati per high-skilled labour
Questa introduzione sembra delineare un quadro desolante che cancella ogni speranza di inversione di marcia, ma sarebbe una visione parziale: il fenomeno deve essere analizzato in maniera più ampia.
Confrontando i dati dell’Italia con quelli di altri paesi europei, si scopre ad esempio che nel 2014 1486’00 tedeschi si sono trasferiti all’estero, nel 2013 204’000 francesi e nel 2015 50 ‘44 spagnoli hanno fatto lo stesso. Il fenomeno, dunque, non interessa solo l’Italia, che non è nemmeno il paese in cui l’emorragia di abitanti è più marcata.
Quella odierna è, che ci piaccia o no, una società globalizzata in cui molte persone, soprattutto giovani, desiderano mettersi alla prova in contesti diversi da quello in cui sono cresciuti e fare l’esperienza di vivere in altri paesi. In altri casi, semplicemente, il caso vuole che nel mercato globale del lavoro trovino un’offerta più vantaggiosa in una nazione straniera piuttosto che nella propria.
Quello che ci deve preoccupare è piuttosto il saldo tra migranti ed emigranti relativo ai giovani high-skilled. È un tema che purtroppo trova pochissimo spazio nel dibattito sull’immigrazione in Italia, dominato dal problema dei migranti provenienti da paesi in via di sviluppo e polarizzato tra integrazione e “invasione”. E anche in questo caso la nostra situazione è molto grave: secondo un’indagine del CNR il saldo tra ricercatori entrati e usciti dal nostro paese è -13%. Per fare un confronto, nel Regno Unito è del 7,8%, in Francia è del 4,1%, addirittura in Spagna è dell’1%.

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Perché è fondamentale vincere la corsa ai talenti
Se l’Italia vuole tornare ad essere competitiva, ed ha le potenzialità per farlo, deve urgentemente invertire la tendenza. Le nostre università devono porre come principale obiettivo quello di attrarre studenti dall’estero, anche al di là dei programmi Erasmus, e per fare ciò è fondamentale crearsi una buona reputazione internazionale potenziando la qualità della didattica e soprattutto aumentando il numero di corsi in Inglese.
Entrare nella competizione per i migliori talenti internazionale è fondamentale per la ripresa del Paese. Prima di tutto, sarebbe un’enorme occasione di arricchimento culturale, consentendo ai nostri studenti la possibilità di interagire con ragazzi provenienti da altri contesti e portatori delle più svariate esperienze: chiunque abbia partecipato a programmi Erasmus sa quanto questo sia importante per la propria formazione. Ma anche al di fuori dell’ambiente universitario la presenza costante di studenti stranieri potrebbe dare un grande contributo alla collettività. Una città più internazionale è infatti, per forza di cose, più dinamica e stimolante, meno vulnerabile a quel provincialismo che soffoca molte delle nostre città: ciò convincerebbe anche molti dei nostri giovani a rimanere.
Ovviamente non è sufficiente creare le condizioni affinché i migliori ragazzi stranieri vengano a studiare nelle nostre università, ma è fondamentale fare in modo che possano restare in Italia anche dopo aver conseguito il titolo. Se il nostro Paese riuscirà a mostrarsi abbastanza attrattivo, questi ragazzi potrebbero entrare a lavorare nelle imprese italiane (che spesso hanno proprio nell’internazionalizzazione il loro punto debole) e nelle organizzazioni pubbliche o anche fondare essi stesse nuove imprese.

L’Italia e l’attrazione dei talenti internazionali
Chi pensa che ciò sia un danno per l’Italia, che questi stranieri “rubino il lavoro” ai nostri ragazzi, dovrà ricredersi. Per farlo basta guardare il passato, anche se ovviamente il contesto era diverso. Negli anni Cinquanta Mario Tchou, figlio di un diplomatico cinese presso la Santa Sede, fu braccio destro di Adriano Olivetti, che lo mise alla guida di un gruppo di lavoro che portò (dopo la prematura morte di entrambi) alla nascita del primo calcolatore elettronico, la Programma 101.
Horacio Pagani, argentino appassionato di automobilismo, nel 1982 si trasferì nel modenese per realizzare il suo sogno di progettare un’auto sportiva di lusso. Grazie all’esperienza acquisita lavorando per un’azienda come la Lamborghini, nel 1999 fondò la Pagani automobili, che oggi produce macchine come la Pagani Zonda e la Pagani Huayra, vendute in tutto il mondo a prezzi da capogiro. La sede è a San Cesario, in provincia di Modena, e recentemente è stato aperto un nuovo stabilimento. Forse anche sulla base di questi successi l’Università di Modena e Reggio ha lanciato il progetto di una «International Academy for Advanced Technology in high-performance vehicles and engines», che ha come obiettivo è l’attuazione del programma “Formula Student”, in cui dopo 13 anni gli studenti saranno chiamati a costruire essi stessi una monoposto. Quest’iniziativa, per fortuna, non è isolata: anche la Bocconi sta attuando grandi sforzi per incrementare la percentuale di studenti stranieri, oggi del 15%. Lo stesso sta facendo il Politecnico di Milano, che ha scelto di adottare l’inglese come unica lingua per le lauree specialistiche. Purtroppo questo ha provocato la protesta di alcuni docenti contrari, che invocando il principio della libertà nell’insegnamento hanno portato il caso addirittura in Corte Costituzionale. Ma nel frattempo l’internazionalizzazione dell’ateneo procede a gonfie vele, dimostrando che la strada è quella giusta.
In un mondo globalizzato e dominato dalla tecnologia come il nostro, il “capitale umano” è una risorsa irrinunciabile, e i paesi sono in competizione per attrarre i migliori talenti sulla scena mondiale: l’Italia, se vuole restare nel gruppo dei paesi più avanzati, non può rinunciare a entrare in questa contesa. È fondamentale quindi liberarsi dalla rassegnazione e dai piagnistei sulla scarsa qualità dell’Università italiana o sulla fuga dei cervelli e introdurre in maniera decisa il tema dell’attrazione dei talenti nel dibattito politico.

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