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Diritte al bersaglio: le parole secondo Gianrico Carofiglio

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Essere responsabili della parola, che ha come compito fondamentale quello di essere vera. Ridestare, incessantemente, l’intelligenza critica. Insinuare il dubbio, proprio quando si è certi della verità.

Il successo dei suoi romanzi è solo la conseguenza del modo in cui Gianrico Carofiglio, 56 anni, vive la propria vocazione di scrittore: cosciente del potere delle parole che ha tra le mani. Ieri magistrato e senatore, oggi in vetta alle classifiche; nemmeno lui riesce a spiegare il segreto del proprio successo. Ma ci rivela una delle sue citazioni preferite, di Primo Levi: “Dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.” E forse il segreto è proprio questo.

Conoscendo la sua storia, viene spontanea la domanda: come mai un magistrato è diventato scrittore?

“In realtà la domanda va capovolta: bisogna chiedermi come mai un ragazzino che voleva fare lo scrittore si è ritrovato a fare il magistrato per tanti anni, senza scrivere una parola. Ovviamente non c’è una risposta. Tuttavia nel mio ultimo libro c’è un principio di risposta, e riguarda la paura di seguire il proprio talento. Se sai di avere un unico talento, è difficile trovare il coraggio di seguirlo: comporta il rischio di essere smentito, ed un grande sacrificio. Per questo per tanto tempo ho indugiato, poi ad un certo punto è successo.”

Oggi sarebbe scrittore se non fosse stato magistrato?

“Buona domanda. Per molti aspetti, l’aver fatto il magistrato ha condizionato e riempito di contenuti l’aver fatto lo scrittore. Non so dire se senza aver fatto il magistrato sarei scrittore, ma sicuramente sarei uno scrittore completamente diverso, e senza dubbio più ‘povero’.”

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Pensando a lei – al suo lavoro, ai suoi romanzi, alla sua storia – è evidente che lo scrittore ha anche una dimensione politica, e quindi un impatto diretto con la società. Dunque, che responsabilità ha lo scrittore nel proporre la propria opera ai lettori?

“Bisogna essere molto attenti: uno scrittore, come un arrotino, o un autista di autobus, ha, se la vuole, una dimensione politica; farebbe bene ad avercela, perché è sano occuparsi di politica – il fatto che troppo pochi se ne occupino è la causa della situazione attuale. Fatta questa premessa, io penso che la scrittura narrativa, ovvero racconti e romanzi, non debba in nessun modo essere ispirata dall’idea di mandare un messaggio politico, perché è il modo migliore per uccidere la scrittura. In un romanzo io racconto una storia e dei personaggi, e cerco di farlo con il massimo dello sforzo di verità. Poi, ovviamente, ci possono anche essere delle chiavi di lettura politiche, ma sono il risultato dell’interpretazione, non la premessa della scrittura.

Non esiste una responsabilità politica dello scrittore: è un concetto che bisogna attentamente evitare. Esiste la responsabilità caratteristica dell’etica dello scrittore, che è quella di essere consapevole del dovere di maneggiare il linguaggio secondo un principio di verità, ovvero di scegliere la parola esatta per quello che si intende comunicare, senza trucchi. Questa è una responsabilità che accomuna lo scrittore a molte altre categorie, incluso il politico. Ma restano due cose diverse.”

Il mondo della mafia, che lei ha incontrato durante la sua attività di magistrato, si riflette anche nei suoi romanzi. Perché l’Italia ha bisogno di sentire storie di questo genere – sulla mafia, sulle verità scomode del nostro Paese?

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“Io racconto storie, non ho intenzione di svelare segreti ai lettori. Ma non c’è dubbio che le voci critiche – quelle di chi non si accontenta delle verità preconfezionate, ma analizza criticamente il racconto corrente della vita e della politica, svolgono una funzione importante, che è quella di tenere sveglia l’intelligenza critica. Questo è uno dei compiti della scrittura: quello di seminare dubbi, piuttosto che confermare certezze.”

 

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