di Marco Visentin
Continua la nostra rassegna sui partiti alla vigilia delle elezioni europee: dopo Lega e Movimento 5 Stelle, ecco il Partito Democratico.
Doveva essere lo sconfitto delle ultime elezioni politiche, e il Partito Democratico di Matteo Renzi ha mantenuto egregiamente le promesse. Sarà stato per gli strascichi dello sfortunato referendum, per non aver saputo ben comunicare, per aver perso la sintonia con le preoccupazioni percepite nel Paese: un partito compreso nella propria narrazione di un’economia in buono stato, quando la povertà era (e resta) ancora emergenza. Ad ogni modo, il PD ha regalato alla sinistra il risultato peggiore dal 1948.
E i problemi erano appena cominciati. Renzi annuncia le dimissioni, ma con effetto non immediato; poi, davanti alle proteste, cede. Non più segretario, resta “senatore semplice di Scandicci”. Pensavate che volesse farsi da parte? Avete sottovalutato l’uomo.
Ha così inizio la (breve) “era Martina”: Maurizio Martina, vicesegretario del partito e già Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, assume la reggenza. Non avrà vita facile: tenuto costantemente sotto scacco dalla maggioranza ancora renziana negli organi direttivi del partito, ogni iniziativa gli è preclusa – sempre che ce ne fossero, di idee capaci di avere un qualche impatto politico. Le tensioni raggiungono il colmo quando pare che Martina sia interessato a un’intesa per governare con il Movimento 5 Stelle: apriti cielo, Renzi da Fazio prende posizione contro l’ipotesi di un’alleanza in modo tanto netto da chiudere definitivamente il capitolo. Indiscrezioni sostengono che la partita con i Cinque Stelle fosse incoraggiata soprattutto dall’ex-ministro Franceschini, interessato – pare – a un personale incarico istituzionale. Chissà.
Certo è che Martina, quando ancora un’intesa sembrava possibile, aveva presentato delle proposte – delle intenzioni, diciamo – su povertà, famiglia e lavoro. Da allora al 3 marzo, data delle primarie, il PD può dirsi in letargo: nei sondaggi è stabile intorno al 16-17%, arrivando nei momenti più bui a toccare il 15.
Le primarie, che Giachetti avrebbe voluto più tempestive, si tengono infine 364 giorni dopo la sconfitta elettorale. Sono primarie poco combattute, senza dichiarazioni roboanti e senza proposte rivoluzionarie. L’establishment di partito, incluso un numero rilevante di ex-renziani, si schiera con il governatore del Lazio Zingaretti, che poi vincerà. Gli altri due candidati, Martina e Giachetti, ritenuti, il secondo più del primo, eredi di Renzi, non riescono a impedire al neosegretario una maggioranza dei due terzi dei voti.
Il dato sorprendente è l’affluenza, in linea con le primarie del 2017 che incoronarono Renzi segretario per la seconda volta. Ci si aspettava una comunità democratica decimata, a seguito delle ultime elezioni; gli stessi candidati speravano al più in un milione di votanti – alla fine hanno votato 1 milione e 600mila persone.
Dopo le primarie, pare che sia giunto il rimbalzo. Zingaretti predica “unità”, dà mostra di voler ricucire gli strappi lasciatigli in eredità e ricomporre la comunità dei democratici. Il PD risale nei sondaggi, supera il 20%, tocca il 22. Ma l’effetto-primarie ha breve durata, e a maggio la crescita nei consensi è già terminata. Sic.
Capitolo a parte merita Carlo Calenda, già Ministro dello Sviluppo economico. New-entry, liberal, sembra un nuovo Renzi, solo meno carismatico e ancora inesperto. Non trascina le folle come aveva imparato a fare l’ex-segretario, ma diamogli tempo. Un vecchio adagio dice che le elezioni si vincono al centro, e in vista delle tornate elettorali i partiti si fanno improvvisamente più moderati. Calenda è forse il volto giusto per evitare che il PD si arrocchi sulle posizioni della sinistra radicale tradizionale, che sempre per tradizione non è forza di governo.
D’altra parte, Calenda stride un po’ con il nuovo PD pigliatutto zingarettiano, accanto ai transfughi di Mdp. E infatti, nonostante l’antipatia latente tra lui e Renzi – pare che l’ex-premier non lo veda bene – il 20 maggio i due hanno tenuto un comizio insieme: prove tecniche per misurare l’eventuale platea e forza di un nuovo partito di centro? La voce gira insistente da tempo: tornare a Margherita e DS, per riuscire a coprire in modo efficace centro e sinistra (staccati).
Anche per questo, se Zingaretti ritiene probabile un ritorno al voto in autunno (sarebbe la prima volta nella storia repubblicana), con il crollo del governo dovuto all’impossibile legge di bilancio, Renzi invece vede l’ipotesi come fumo negli occhi. Al voto sì, ma in primavera, quando i suoi comitati civici “Ritorno al futuro” – l’ironia è lecita… – si saranno radicati, magari insieme a Siamo Europei, la creatura di Calenda.
L’impressione è che Zingaretti abbia un buon acume politico, che abbia capito la situazione. Ma che non sia in grado di essere incisivo, vuoi per l’area di appartenenza, vuoi per il tentativo di mantenere una forzata unità interna, vuoi perché mediaticamente non riesce ad affermarsi. Infine, a dire la verità, quel che manca al PD – tra le tante altre cose – è qualche idea dirompente, “rivoluzionaria”: dov’è il “reddito di cittadinanza” del PD?
Dov’è la novità? Non basta qualche frase su Greta Thunberg per essere visti come i paladini dell’ambiente. Non basta proporre una generica riduzione delle tasse sui redditi più bassi per divenire i difensori della classe media in difficoltà: il ruolo se l’è già preso qualcun altro, e hai voglia a strapparglielo… Di tutti i partiti analizzati, il PD è quello il cui destino mi lascia più basito: è privo di una direzione, procede senza uno schema e – cosa ormai essenziale – senza un degno apparato mediatico, per quanto Zingaretti provi a inseguire lo stile grillino.
Editorial Director from January 2020 to January 2021, now Deputy Director. Interested in European integration and public policy.