Una città modello sempre in crescita. Riuscirà a influenzare il resto del Paese?
di Andrea Pradelli
Milano è diventata negli ultimi anni una città vetrina, capace di andare in controtendenza rispetto all’Italia. Questo “Rinascimento milanese” è stato celebrato anche da giornali stranieri come Süddeutsche Zeitung, Financial Times o Le Monde. Da tempo ci si interroga su come far sì che questo modello si diffonda anche nel resto del Paese. Di questi temi abbiamo parlato con Andrea Zoppolato*, fondatore di Vivaio, un’associazione milanese che da anni lancia nuovi progetti per la città.
Che cos’è Vivaio e come è nata?
Vivaio è un’associazione non profit nata nel 2011: dopo 8 anni a Berlino volevo trapiantare qui i due grandi punti di forza della capitale tedesca, la trasversalità e la capacità di aggregare persone diverse. Perciò mi sono messo d’accordo con alcuni amici per cercare di raccogliere le persone più valide e fare qualcosa per la città. Era allora una Milano buia, disfattista, dove addirittura qualcuno voleva vendere EXPO ai Turchi. Con la nostra associazione volevamo portare una mentalità diversa, “vivaizzare” Milano. Vi chiederete cosa significhi: prima di tutto abbiamo scelto questo nome perché il nostro primo evento si è svolto in un vivaio. Con la metafora del Vivaio, però, intendiamo che la città deve diventare un luogo dove seminare nuove piante, cioè nuove idee. Siamo convinti che sia più importante l’ecosistema dei singoli progetti:“vivaizzare Milano” significa renderla un ambiente che favorisca chiunque abbia dei progetti che lo appassionano e possono diventare utili per gli altri, anche e soprattutto se sembrano irrealizzabili. Questo renderà il nostro vivaio più bello! La nostra regola numero uno è che quando si critica qualcosa, bisogna sempre fare una controproposta costruttiva: distruggere è infantile, noi vogliamo creare, sfruttando la carica vitale delle persone intraprendenti per natura. Per noi ogni problema è uno stimolo per elaborare soluzioni destinate a portare benefici alla collettività. Sedendoci al tavolo con i nostri membri abbiamo ideato molti progetti, che potete scoprire sul nostro sito: Milano città-Stato, EXPOP, Make Your Start Up, Angeli dei Navigli, il visionario Parco Orbitale e tantissimi altri. Sette anni dopo possiamo dire che sì, Milano è vivaizzata.
Vedendo oggi Milano, quali prospettive e problemi vede per la città? Quali sono i suoi punti di forza e di debolezza?
Oggi il problema di Milano è che è diventata troppo l’opposto di 7 anni fa. Dal disfattismo siamo passati all’autocelebrazione perenne, tanto che oggi dire che qualcosa non va sembra quasi un reato. È quello che io chiamo “il complesso dell’età dell’oro”: Milano sta oggettivamente benissimo, ma ogni periodo dorato è destinato a finire quando nessuno vede più i problemi. A me piacerebbe invece una città che prenda finalmente consapevolezza di essere una grande capitale culturale internazionale, capace di attrarre i più grandi talenti. Oggi invece si bea nel confronto con Roma, che è un po’ come sparare sulla croce rossa. Vi racconto un aneddoto: quando la nostra pagina Milano Città Stato vuole fare il botto di lettori, il modo migliore è scrivere articoli che prendono in giro Roma. Il rischio è guardarsi alle spalle invece che oltre le Alpi. Anche perché quando Milano lo fa, eccelle: moda, EXPO, design, farmaceutica, ma anche semplicemente le nostre squadre di calcio. Oggi ci vantiamo di avere i trasporti migliori rispetto a Roma, invece non dovremmo avere paura di dire che puntiamo ad averei trasporti migliori di quelli di Londra! Dobbiamo poi avere il coraggio di ammettere che oggi il punto di forza di Milano è attrarre i migliori talenti italiani, che però dopo un po’ finiscono per andare all’estero. Di stranieri ne vedo, ahimè, ancora troppo pochi! Possiamo fare molto di più! Il sindaco attuale, purtroppo, sembra incarnare questa tendenza al ripiegamento autocelebrativo.
Uno dei vostri progetti più popolari sui social è Milano Città Stato, pagina di successo su Facebook che abbina gag simpatiche a proposte costruttive per la città. Che cosa intendete per “città-Stato”, come pensate di raggiungere il vostro scopo e quali sono i modelli da imitare?
Milano Città Stato è nato da un tavolo con i giovani politici milanesi. Ci siamo chiesti: cosa servirebbe per rendere Milano grande? Abbiamo cercato cosa accomuna tutte le grandi metropoli internazionali, e la risposta è stata che tutte sono in un certo modo “città-Stato”: territori, cioè, che beneficiano di un’autonomia particolare rispetto al governo centrale. L’Italia è l’unico grande Paese senza città di questo tipo, persino l’emblema del centralismo, la Francia, dal 2007 lascia un’autonomia speciale a Parigi. Milano invece dal punto di vista fiscale e normativo è come Vigevano. Facciamo una metafora: in ogni Paese ci sono aeroporti domestici e internazionali. I secondi sono degli hub, che attraggono risorse dall’estero. La città-Stato è un hub. Milano oggi non lo è, attrae risorse solo dal resto dell’Italia.
Per diventare città-Stato ci sono tre vie. La prima è l’articolo 132 della nostra Costituzione, per cui ogni territorio con almeno un milione di abitanti può fare domanda di autonomia, diventando di fatto una regione. Servirebbero l’approvazione della giunta e un referendum confermativo. Con l’articolo 116 poi la nuova regione potrebbe richiedere maggiori competenze. La seconda, più complicata anche se concettualmente più facile, è che la Lombardia di fatto rinunci a Milano lasciandola diventare una regione autonoma: grazie al già citato articolo 132 le regioni possono annettersi o sottrarsi territori. La più suggestiva è però la terza, quella che io amo chiamare “legge Bosman delle amministrazioni locali”. Siccome siamo in Europa e la legislazione comunitaria è superiore a quella nazionale, abbiamo il trattato di Lisbona che oltre alla libertà di circolazione di beni e persone sancisce anche il diritto alla buona amministrazione. Ogni territorio che si sente mal gestito può quindi chiedere di essere amministrato con leggi europee: Milano potrebbe essere capofila in questocampo, così come Bosman liberalizzò il calciomercato.
Oggi Milano è costretta a dare tutte le risorse che raccoglie allo Stato, che poi ne restituisce una parte. Questo è semplicemente folle: è un disincentivo alla buona amministrazione, ti stimola a guadagnare meno per dare meno allo Stato. Io vorrei invece che Milano, ma non solo, fosse libera di trattenere sul territorio una quota delle imposte che raccoglie, fosse anche solo il 20%, e avesse piena autonomia impositiva (cioè poter esigere nuovi tributi indipendentemente dal governo centrale) oltre che di spesa. Così avremmo la massima responsabilizzazione degli enti locali.
A livello internazionale il mio modello preferito è Hong Kong: città che batte moneta e ha una legislazione totalmente differente dal resto del Paese. Da quando la Cina l’ha lasciata libera è diventata essa stessa molto più simile a Hong Kong, mentre tanti temevano il contrario! A livello europeo il mio cuore batte per Berlino e le città-Stato tedesche (la costituzione di Amburgo è una delle più moderne che si siano mai viste). Sono autonomie culturali, che derivano da una fortissima tradizione all’autogoverno. Un altro modello perfetto è Madrid, che trattiene risorse e sceglie le competenze da amministrare con larghissima autonomia dal governo centrale.
Oggi siamo in quello che Parag Khanna ha chiamato “il secolo urbano”: a competere tra di loro non sono più gli Stati ma le grandi metropoli. Come si inseriscono in questo contesto le città italiane, con la loro forte tradizione municipale?
Il grosso limite dell’Italia è tentare di copiare modelli che funzionano altrove ma non fanno parte della nostra cultura. Se ci pensate, nel mondo si conoscono la Francia, l’Inghilterra, ma quando si pensa al nostro Paese vengono in mente Genova, Venezia, Roma, Napoli e Milano. Non si può dire che Londra ha conquistato il mondo, mentre Roma e Venezia lo hanno fatto diventando territori internazionali: all’estero invece c’erano gli Stati-nazione. Oggi noi dobbiamo minimizzare la sovrastruttura dello Stato centrale, che è sempre negativa per l’economia locale, e massimizzare l’autonomia cittadina. Penso a un federalismo municipale sul modello della Svizzera, che paradossalmente è il Paese più simile a noi: entrambi eravamo entità più o meno autonome nel Sacro Romano Impero, poi loro sono riusciti a diventare indipendenti. In questo quadro Milano diventerebbe l’hub internazionale di cui parlavo prima, ma anche le medio-piccole città si specializzerebbero in quello che sanno fare meglio: così Modena sarebbe il paradiso dell’automotive, Bologna il regno dei giovani. E sarebbero competitive a livello mondiale.
Per finire Milano potrebbe vivaizzare l’Italia? Se sì, come?
In Italia abbiamo un grosso problema di classe dirigente: le élite hanno fatto il male del Paese, da qui l’exploit dei partiti anti-sistema. Il concetto è semplice: se sei ricco devi curare il luogo in cui ti trovi per renderlo migliore, non puoi essere miliardario e vivere in una stamberga in una città sommersa dai rifiuti. Ora Milano è come un uomo che si sta realizzando, non ha problemi e deve rendere migliore l’ambiente in cui vive, che è prima di tutto l’Italia. Deve essere più generosa e donare la parte migliore della sua mentalità agli altri: laddove c’è una persona intraprendente con uno spirito “vivaista”, quello è un milanese, quindi un alleato che va supportato, ma senza fare l’errore di ignorare la realtà locale. Lo diceva anche Manzoni, “Milanesità, è l’attitudine innata o acquisita di distinguere l’utile dall’inutile”. Se Milano non farà questo, il suo destino sarà affondare assieme all’Italia.

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