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Il demone materno – intervista a Donatella Di Pietrantonio

Reading time: 3 minutes

di Marco Visentin

Come tutti gli scrittori degni di nota, Donatella Di Pietrantonio è dotata di una sensibilità particolare, che emerge discreta da testi come L’Arminuta e Bella mia. Nella nostra intervista, realizzata al termine dell’evento organizzato da Bocconi d’Inchiostro, proviamo ad assemblare i pezzi del complesso universo interiore che sembra legare insieme le sue opere.

Ha raccontato, in un’intervista, che sua madre era “presente ma molto distante”, e che inevitabilmente le madri dei suoi libri ne sono state influenzate. Innanzitutto, perché le madri? quali corde toccano? E quanto c’è di personale, e dove inizia la fantasia?

Diciamo che il tema della maternità è la mia ossessione, il mio demone. Si dice, a volte, che ogni scrittore scriva sempre lo stesso libro, e io scrivo sempre lo stesso libro sulla maternità. Poi, naturalmente, cerchiamo sempre delle trame diverse per quell’unica ossessione, per quell’unico nodo irrisolto che abbiamo bisogno di esprimere scrivendo, senza mai veramente scioglierlo.

Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.

L’Arminuta

Facendo riferimento a una celebre citazione da L’Arminuta, le chiedo: che “luogo” è una madre?

Idealmente, la madre, l’idea di madre, è il luogo dell’amore, dell’accoglienza, del contenimento e sostegno, dell’aiuto. Quella con la madre è una relazione primaria, fondamentale nella vita di ognuno. Naturalmente, parlo della madre o di un suo sostituto: di una funzione materna. Non sempre è così, questo è solo un ideale: poi ci sono le cosiddette deviazioni dalla norma.

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Le sue madri, infatti, sono molto fragili, e problematiche.

Esatto. È di questo che mi interesso sempre: di queste maternità anomale, inadeguate, di quando la madre non riesce nel suo compito, che è difficilissimo. Questo anche, come si accennava, per motivi autobiografici… Diciamo che il mio lavoro è andare a scoprire, attraverso i personaggi, come si sopravvive a una madre manchevole, e anche andare a guardarle da vicino, queste madri imperfette.

Nel trasferimento dalla città al paese, L’Arminuta non “cambia” solo la famiglia, ma anche il luogo in cui vive, scoprendo un Abruzzo diverso. Quanto è importante il legame con la terra abruzzese?

È un legame che alla fine prende uno spazio sempre superiore a quello che io vorrei riservargli, e questo mi racconta la forza delle radici, dell’appartenenza. Naturalmente, quello con le proprie radici è un rapporto ambivalente, nel senso che è sempre, infine, un “amore-odio”: la radice è quello che ci ancora, ci tiene saldi al terreno, ma è anche quello che ci limita, ci tiene fermi lì. Quindi, io ho sempre questo rapporto abbastanza dinamico con le origini.

Lei ha fatto studi scientifici, ma non le hanno impedito di scrivere. Pensando a studenti della nostra università con la stessa aspirazione (ammesso che ce ne siano), in due parole, che consiglio dà?

Portare nella scrittura la propria formazione, e cioè questa scientificità dei propri studi, perché anche nella scrittura è importante avere un approccio scientifico, secondo me.

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