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Off Campus

Gli occhi nascosti della città

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Ogni notte, in tutta Milano, decine e decine di volontari vanno a tendere la mano a chi ne ha più bisogno.

La strada vista dagli occhi di chi vuole cambiare le cose.

Chi ha vissuto a Milano per un tempo sufficientemente lungo si sarà trovato a passare, per sbaglio o per necessità, nel quartiere subito a nord della stazione Centrale. Si sviluppa intorno a un lungo viadotto che fa passare i binari sopra il livello della strada. A meno di un chilometro c’è il trafficatissimo viale Monza, c’è la stazione, sempre piena di gente, e poco più in là i grattacieli avveniristici del Centro Direzionale. Ma in questo quartiere quella Milano da copertina, indaffarata e moderna, non è ancora arrivata. Nelle strade si respira un’aria diversa. È un quartiere popolare, più povero: si nota già solo camminando ai lati del viadotto. Nascosti negli angoli polverosi si trovano infatti decine di sacchi a pelo, coperte, sacchetti con avanzi di cibo, cartoni. Chi ha la voglia e l’attenzione di chiederselo capisce in fretta di cosa si tratti: sono le case dei tanti che, in questa zona, vivono per strada. Si concentrano sotto alle gallerie che attraversano il viadotto, dove sono più riparati. Sono luoghi nascosti, protetti dalla curiosità della gente. Bui, di sera molto poco trafficati, sono la casa ideale per chi si trova a doversela scegliere fra i ponti della città.

Scegliere di cambiare le cose

I più, a vedere accampamenti di coperte e cibo maleodorante, storcono il naso e allungano il passo. Ma a Milano esiste una fitta rete di associazioni, i cui volontari scelgono di andare proprio lì, dove nessun altro arriva, sotto quelle gallerie e in tante altre parti della città, a tendere la mano a chi ne ha più bisogno. Guardano negli occhi la miseria per quella che è, senza girarsi dall’altra parte. Le associazioni più attive sono fra le altre i Fratelli San Francesco, il Progetto Arca e la Ronda della Carità, ma la lista è molto lunga.

Si muovono di sera a bordo di un pulmino pieno zeppo di beni di prima necessità. Calzini, mascherine, cibo, guanti, sacchi a pelo, cappelli, pantaloni, mutande. Ai senzatetto serve tutto. E non è nemmeno abbastanza. I volontari sanno che devono fare di più: parlano. Piccole frasi, domande discrete. “Come stai?”, “Fa freddo stasera!”, “Come ti chiami?”. Tanto basta, spesso, per strappare un sorriso e una frase gentile. E poi spiegano: come andare a dormire al chiuso, dove trovare un avvocato, una mensa, dei farmaci gratuiti. Un aiuto attivo, intraprendente, che vuole andare oltre l’assistenzialismo.  

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Storie di immigrazione

Siamo andati a vedere con i nostri occhi il lavoro di queste persone. Le storie che abbiamo incontrato avevano spesso molto in comune fra di loro. Sotto le gallerie del viadotto, ad esempio, dormono in prevalenza immigrati.

Sono ragazzi giovanissimi. A volte minorenni: 16, 17 anni. Raccontano tutti storie molto simili. Partono dalla Libia e arrivano in Sicilia, per poi risalire fino a Milano. Nigeria, Somalia, Etiopia, Marocco, Sudan, Eritrea. Tanti ragazzi, da mezza Africa, a dormire sui nostri marciapiedi. Ma non ci sono solo loro: alcuni arrivano da nord. Un ragazzo con un piede congelato dice di aver attraversato i Balcani a piedi. Il suo volto è il ritratto dello spaesamento: non conosce nessuno e parla solo un po’ di inglese. Si prova ad aiutarlo, dopo poco si chiama un’ambulanza. Poi si deve proseguire: la gente da cui passare è tanta.

Conoscere chi vive per strada

Il viadotto della stazione è infatti solo uno dei tantissimi luoghi dove arrivano i volontari. Ogni gruppo ha un lungo percorso che non si limita a un solo quartiere. Per ogni senzatetto che si trova si scende, gli si chiede di cosa abbia bisogno, poi si salta di nuovo in macchina e si prosegue. Ci si muove in fretta: le strade la sera sono deserte, gli autisti conoscono le scorciatoie. Si viaggia scrutando ogni angolo per essere sicuri di non lasciare indietro nessuno.

Con il tempo si impara a riconoscere le caratteristiche di ciascuna zona, i suoi abitanti e le sue storie. Basta spostarsi di qualche via e non si incontrano più giovani immigrati ma persone di mezza età, che vivono in strada magari da anni. Sono più organizzati, studiano ciò che gli viene offerto sapendo esattamente cosa gli serve. Ma i problemi rimangono gli stessi: si incontra una signora filippina che sta andando a fare i bisogni dietro la colonna di un porticato, in mezzo alla strada; si sentono le lamentele di un signore diabetico; si consola un altro che non trova più le coperte. Una donna accampata nel vano di una banca ci accoglie urlando e lanciandoci panini. Altri, parecchio ubriachi, hanno da ridire sulle scarpe troppo strette che gli sono state date.

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A tutti si cerca di dare quello di cui hanno bisogno, che sia un sacchetto di cibo o una parola di conforto.  Il volontario cerca di instaurare un rapporto umano, un dialogo. Solo così si può cambiare la vita di queste persone. Aiutandole a farsi aiutare. I risultati ci sono, settimana dopo settimana: un marciapiede vuoto dove prima dormiva qualcuno fa nascere la speranza che si sai convinto a farsi aiutare e abbia trovato una casa o un lavoro.

Una delle fermate è lungo la Martesana, il canale che attraversa la periferia Nord-Est di Milano. Una strada ne costeggia l’argine e, grazie ai ponti che la attraversano, offre rifugio a parecchi senzatetto. Di giorno qui è pieno di biciclette, bambini, signore anziane che fanno due passi. C’è un’atmosfera di sicurezza e tranquillità. Di notte invece ci sentiamo parecchio a disagio. La via è deserta, la luce è bassa, le ombre rimbalzano da un muro all’altro. Le gallerie sono coperte di graffiti, uno è interrotto da una piccola grata di ferro.

Ci guardiamo pensando tutti la stessa cosa: se ci fosse qualcuno dentro? Una voce ci toglie ogni dubbio. Viene da dietro la grata.

“Avete da mangiare?”

Ci avviciniamo ma non si vede niente, è buio pesto.

“Sì, vieni avanti!”

Spuntano due occhioni che ci scrutano e una mano tesa verso di noi. È un ragazzo: colpisce la sua giovane età e la voce tutto sommato allegra ed amichevole. Vive sostanzialmente in una fogna, in mezzo a topi e pantegane, ma ha la voce allegra. Cerco di capacitarmene mentre lo saluto, e mi chiedo quanto durerà. Vivere per strada porta spesso a chiudersi, per rabbia o per disperazione. Si perde il “senso dell’altro”. La luce si spegne, non ci si fida più.  È una conseguenza, naturale, di anni di richieste inascoltate e sguardi che si girano dall’altra parte. I ragazzi più giovani sanno ancora essere allegri. Ma fra quanto questo ragazzo si chiuderà in sé stesso, se continuerà a vivere dietro alla grata di una fogna?

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Dati poco incoraggianti

In città, nonostante l’impegno di volontari e associazioni, il numero di senzatetto è aumentato a dismisura negli ultimi anni. Gli ultimi dati, che sono comunque pre-covid, riportano più di 2600 persone senza fissa dimora divise fra chi dorme in strutture del comune e chi sceglie la strada. Nel 2008 erano meno della metà, 1221. Quanti sono finiti in mezzo alla strada nell’ultimo anno? A quali cifre saremo arrivati? Come in tanti altri settori, conosceremo gli effetti della pandemia solo fra qualche tempo. Ma anche senza dati ufficiali chi ha a che fare con queste persone sa quanto la situazione sia peggiorata. Per ognuno che riesce a trovare un posto dove dormire se ne incontrano due che raccontano di averlo perso. E non si creda che il problema riguardi solo qualche migliaio di persone: i marciapiedi affollati sono lo specchio di un’intera società in crisi. Per questo è giusto ripartire da qui, dagli ultimi: dove la ferità è più aperta sta la nostra più grande opportunità di riscatto.

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First year student in Economics and Finance. Passionate about stories from all over the world, starting from Milan and our university. Keen on writing and, of course, journalism.

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