A cinquant’anni dal 1968, in Bocconi con BSHS si riflette sul lascito del movimento
Questo articolo nasce da un incontro organizzato da Bocconi Students Historical Society (BSHS), che ha avuto il nobile compito di ricordare anche in Bocconi la bellezza della storia, ma soprattutto che senza storia siamo inevitabilmente condannati a ripetere gli errori del passato. A cinquant’anni dal 1968, anno simbolo di un movimento di ribellione, BSHS ha invitato a discutere delle conseguenze e delle cause di quegli eventi ormai epici Franco Amatori, Enrico Valdani e Giorgio Bigatti, docenti Bocconi, e Sergio Bologna, storico e saggista.
I lettori mi perdonino, ma questa sarà più una storia che un articolo. Mi auguro che chi avrà voglia di leggerla venga coinvolto come lo sono stato io a scriverla, e faccia propria questa riflessione sul passato e sul futuro, che è anche una dichiarazione di pace e di speranza.
23 gennaio 1973, omicidio Franceschi
Inverno, quarantacinque anni fa. Milano è inquieta sotto il freddo e il silenzio. È il 23 gennaio del 1973 e gli studenti sono riuniti in assemblea all’interno dell’Università Bocconi. Queste assemblee erano solitamente aperte agli esterni, ma quel giorno il rettore ne vieta l’accesso a causa del clima di tensione. Il dottor Grillo, che all’epoca gestiva il Pensionato, ha raccontato che la polizia girava già da qualche giorno vicino all’Università a causa di un’aggressione fascista agli studenti. I ragazzi vogliono ribellarsi a questa decisione, e lanciano delle molotov in strada, una macchina viene colpita e si incendia. È questione di poco: l’agente Gallo (poi assolto per non aver commesso il fatto), mezzo addormentato in una volante e forse anche brillo, nella confusione generale si mette a sparare in giro. Vengono colpiti un operaio e uno studente, un’amara coincidenza fa sì che rappresentino le due istanze sociali simbolo di quegli anni. L’operaio si salva, lo studente non sopravvive. Lo studente si chiamava Roberto Franceschi, studiava in Bocconi ed era un ragazzo pieno di sogni. Vogliamo capire perché si è arrivati a questo, e se quei sogni sono morti con lui.
Cause e conseguenze di una rivolta globale
Torniamo indietro di qualche anno. Il 1968 è l’anno simbolo di un movimento, il “Sessantotto”, che nasce anni prima e finisce anni dopo. È l’anno in cui sembra succedere di tutto: la protesta studentesca si intensifica, prende coscienza il movimento operaio, viene assassinato Martin Luther King, assassinato Robert Kennedy, in Vietnam e in Africa si continua a morire. È l’anno in cui il movimento degli studenti e quello operaio convergono per poi allontanarsi, tra loro e da tutto, negli anni successivi. Le città europee durante i moti sono travolte da una sorta di eccitazione per il cambiamento che le rende più fresche e liberate dal torpore quotidiano, anche in mezzo alle macerie. Ma è soltanto il punto di arrivo e ripartenza di un fenomeno internazionale che vede diversi epicentri. Come ricorda Sergio Bologna: negli Stati Uniti, con i movimenti contro la guerra del Vietnam, contro la discriminazione razziale, per i diritti civili; non solo: in Francia, Germania, Cina, negli stati del blocco sovietico e in tanti altri erano nati movimenti sociali fortemente antiautoritari, accomunati dall’insofferenza per società repressive e un sistema percepito come fallimentare. Amatori spiega come la vera causa fosse il divario tra aspettative e situazione reale: le grandi aspirazioni ideali del dopoguerra erano state deluse, e le persone erano travolte dalle nuove logiche imposte dalla società dei consumi. A volte queste istanze sono indefinite, durante il maggio francese Parigi si ferma senza ben sapere cosa vuole, almeno fino all’entrata in scena degli operai.
In Italia i venti del cambiamento si percepiscono inizialmente attraverso i giornali studenteschi, spiega Bigatti, a partire dallo straordinario episodio della Zanzara del Parini. Si parla di Vietnam, di Cuba, di franchismo e di cultura di massa. Il Sessantotto milanese è particolare perché Milano è una città ricca, economicamente e culturalmente, con una forte presenza dell’industria editoriale, si pensi a Feltrinelli. I gruppi incubatori della protesta sono tanti e diversi, ma convergono in un movimento che si sostanzia inizialmente con l’occupazione delle università. Prima a Milano e vero punto di svolta l’Università Cattolica, dove gli studenti protestano contro un fortissimo aumento delle tasse, poi progressivamente le altre università e i licei. In Bocconi la situazione è diversa: è sempre stata un unicum e il movimento si sviluppa più lentamente con risvolti diversi, ma culmina con una delle storie più tragiche di tutto il Sessantotto italiano.
Il Sessantotto in Bocconi e l’eredità intellettuale del movimento
Il compito di raccontare cosa avvenne nella nostra università è lasciato al professor Valdani, che nel settembre del 1968 arriva come matricola. Quell’anno in Bocconi quasi nemmeno si discute, soltanto verso l’inverno cominciano i primi dibattiti che si fanno più intensi nel 1969, anno in cui viene occupato il pensionato e abbattuta, per iniziativa degli studenti, la tradizionale divisione tra ala femminile e maschile.
Negli anni ’70 l’Università Bocconi diventa rivoluzionaria dal punto di vista dell’innovazione nella didattica. In sostituzione del tradizionale corso di laurea in economia e commercio vengono introdotti tre corsi di laurea nuovi: Economia aziendale (Clea), Economia politica (Clep), Discipline economico e sociali (Des). Vengono introdotti metodi didattici innovativi come la discussione di casi, o la partecipazione in aula. Inizia un processo di cambiamento e modernizzazione che ha influenzato in seguito tutte le facoltà di scienze sociali ed economiche del paese, scontrandosi con una forte opposizione del Ministero. Inoltre, gli studenti sono progressivamente integrati nei diversi organismi di gestione dell’università. Straordinariamente innovativa è, poi, l’introduzione di discipline fino a quel momento ignorate nel panorama accademico italiano, come il marketing e la finanza aziendale. La Bocconi ha il merito di essere stata pioniera anche in questi campi.
È infatti un’eredità intellettuale, spiega Bologna, l’eredità forse più importante del Sessantotto. E non solo nelle scienze sociali: anche in architettura, nel design, nelle discipline scientifiche, non solo cambiano i metodi d’insegnamento, ma vengono messe in discussione le discipline stesse. Si verifica da quel momento una generale modernizzazione della cultura che è permessa proprio da questa volontà di mettere in discussione le cose, che viene dal basso ma è ascoltata dall’alto.
Purtroppo, in Bocconi le assemblee e i dibattiti si intensificano più tardi, quando la voglia di libertà e partecipazione degli studenti iniziava ad essere inquinata dalla politica, e il movimento diventava un movimento diverso, ormai verso una deriva terribile che avrebbe portato negli anni successivi il paese sull’orlo di una guerra civile. E che purtroppo porta, nel gennaio del ’73, all’omicidio di Roberto Franceschi.
Le altre eredità del Sessantotto e quello che non dobbiamo mai dimenticare
Oltre al lascito intellettuale, cosa ci lascia di buono il Sessantotto? Il futuro rubato a Roberto e altri come lui, un prezzo così caro, ha reso il nostro un presente migliore? Quali sono stati gli errori peggiori?
Ci sono due letture principali, chiarisce il professor Bigatti: da un lato il Sessantotto come movimento di liberazione, animato dalla volontà di futuro e di mettere in discussione un sistema vecchio e statico, scoppiato nelle scuole e nell’università e che ha coinvolto il mondo operaio. Dall’alto lato, il Sessantotto come movimento destituente piuttosto che costituente. Pur avendo il merito di aver fatto esplodere alcune contraddizioni presenti nelle società, non è stato in grado di dare vita a un’opera riformista. È questa la sua lezione peggiore, secondo il professor Amatori. È stato un movimento che è stato inquinato dall’ideologia politica, ovvero dal marxismo reale: un modo di leggere Marx alla lettera, acritico e anacronistico. La contestazione per quanto c’era di sbagliato era giusta, anche la lotta contro l’autorità, ma doveva essere contro quelle autorità incapaci di dare seguito alle speranze del dopoguerra, non aprioristica. Ed è una rivolta che in molti momenti, troppo spesso, perde di senso rispondendo con chiusura alla chiusura, diventa una protesta di principio e non comprende in quale direzione si muove. “La lezione della storia”, continua Amatori, “è che la società umana ha bisogno di autorità autorevoli. E che se metti in discussione un ordine devi poi passare a un ordine nuovo, fatto di valori condivisi e di istituzioni accoglienti in cui tutti si riconoscono”. Questo il Sessantotto, almeno in Italia, non ce l’ha lasciato.
Se analizziamo il suo impatto reale nella società scopriamo, in effetti, che nell’insieme dei cambiamenti epocali eredità del novecento il Sessantotto è stato fondamentale in certi campi, ma non così importante nel suo complesso. Tuttavia, ci lascia alcune lezioni che non dobbiamo dimenticare.
La lezione migliore, secondo Amatori, è l’essere stato “un moto liberatorio, ricco di umanesimo”, erede dei tre valori alla base della rivoluzione francese: libertà (contro un autoritarismo ingiustificato e ingiustificabile), uguaglianza (ad esempio con la lotta per la parità tra i sessi) e fratellanza (consapevolezza che viviamo tutti sullo stesso pianeta, dobbiamo salvaguardarlo e sostenerci gli uni con gli altri).
Il 1968 rappresenta una generazione che ha voluto con forza affermare la propria opinione e individualità. Roberto Franceschi all’Università Bocconi era uno dei leader del movimento studentesco e si opponeva alla mentalità, troppo spesso egemone in quegli anni, che portava a percorrere la via facile, nella vita e nello studio. L’immagine di Roberto tramandata da chi lo ha conosciuto e dalla sua famiglia è quella di un ragazzo politicamente impegnato, ma non in alternativa allo studio, a cui stavano a cuore l’apertura culturale, il progresso sociale e la difesa dei più deboli. Un suo compagno di studi scrive: “Roberto, la sua ferrea volontà, la sua onestà intellettuale, la sua incrollabile fede nella scienza, la sua costante ricerca della verità, il suo amore per la cultura, la sua illimitata fiducia nelle possibilità dell’uomo, dopo la sua morte, hanno aiutato me e molti altri compagni a superare le difficoltà, a correggere gli errori e ad andar avanti”.
È questo che non dobbiamo dimenticare di quegli anni. Tenere viva la memoria, elevata la propria consapevolezza, saldi i propri valori. È, infatti, l’unico modo per continuare a progredire ed evitare il rischio di fare passi indietro. E Franceschi rimarrà sempre un esempio di quello che siamo: noi bocconiani amanti della libertà e della conoscenza, della verità e della giustizia, non possiamo dimenticarci di questa storia, che è la storia della nostra università e per questo parte della nostra storia.
Voglio concludere con l’invito del professor Valdani a difendere le proprie idee per cambiare le cose, nonostante il mondo oggi sia sempre più complesso. Ma se la vita non è un po’ difficile si perde una parte dell’avventura, lui dice, e cita un vecchio proverbio cinese: le stelle non sono lontane, ma semplicemente le scale sono ancora troppo corte per raggiungerle.
Articles written by the various members of our team.