The Human Jukebox, spettacolo degli Oblivion in programma fino al 29 marzo al teatro Leonardo, è un concentrato di improvvisazione, sincronia, e tante risate. Grandissima parte dello show si basa su un continuo dialogo con il pubblico, tanto che la platea diviene co-partecipante nella creazione della scaletta della serata, che proprio per questo motivo non è mai uguale alla precedente. La performance del quintetto di scuola bolognese è eccellente. Grazie ad un vastissimo repertorio musicale ed una intesa ormai quindicinale, gli attori riescono nella difficile impresa di mischiare canzoni, parodie, mimi e battute in modo ininterrotto e naturale. Un compito davvero arduo, se si pensa che gran parte dei cantanti proposti viene estratto a caso da bigliettini dove gli spettatori hanno indicato le loro preferenze ad inizio serata. L’attenzione è sempre alta ed ogni pezzo si differenzia dall’altro per struttura e modalità di esecuzione, rendendo la performance un susseguirsi di scene uniche ed esilaranti nel loro genere. Non mancano infine cenni alla satira politica e di attualità. Insomma, uno spettacolo completo, complesso da mettere in scena e molto coinvolgente.
Complimenti per lo spettacolo, è proprio vero che l’improvvisazione non si impara..
Grazie! Gaber diceva che però a volte l’improvvisazione è sinonimo di approssimazione, speriamo di non essere stati approssimativi!
Dunque Gaber è uno dei vostri modelli artistici. A chi vi ispirate in particolare?
Noi siamo partiti ispirandoci al Quartetto Cetra, perché loro facevano i cd. “centoni”, cioè usavano canzoni famose con parole cambiate, e con questi costruivano vere e proprie storie che andavano in onda in TV, sul primo canale negli anni ‘60. Andava in onda su Studio Uno, era il programma più atteso del sabato sera. Si trattava di parodie di un’ora su grandi romanzi. Loro avevano i loro ritmi e riferimenti musicali, noi ovviamente abbiamo aggiornato ritmi, repertorio e riferimenti musicali. Altro modello è appunto Gaber, soprattutto per quanto riguarda la struttura delle canzoni e la costruzione quasi chirurgica del monologo e della costruzione scenica, dove tutti i colpi devono andare a segno. Infine, sotto l’aspetto della “follia” ci ispiriamo ai Monty Python (gruppo di comici inglesi degli anni 60). In Italia non sono famosissimi, ma hanno fatto anche film di successo. Sono stati d’ispirazione anche per il trio Lopez-Solenghi-Marchesini.
Com’è nata la vostra avventura?
In realtà è nata un po’ per caso, perché all’inizio abbiamo iniziato questo progetto su spettacoli che ci venivano commissionati da una fondazione bancaria di Bologna, che ci assegnava alcuni temi. Noi tutti veniamo da una formazione di musical theatre, ma a loro interessava che noi studiassimo ed esprimessimo altre correnti presenti in Italia in quegli anni. Dunque siamo partiti dal Caffè Chantant, Quartetto Cetra, Gaber, Mina, trio Lescano…insomma abbiamo preso spunto da questi artisti italiani ed andando avanti ce ne siamo un po’ innamorati. Fino ad elaborare dei linguaggi nostri. Ad un certo punto abbiamo deciso di smettere di fare omaggi ad altri, ma di fare materiali rielaborando in modo originale.
In particolare vi siete dedicati anche alla rielaborazione di opere letterarie…
Sì, Manzoni, Shakespeare (con uno spettacolo intero dedicato ad Otello), poi Dante, Leopardi, ma anche cose di cultura più popolare come Avatar. Abbiamo preso questo filone in modo “sussidiaresco”, adesso invece ci stiamo dedicando a prendere di mira i cantanti, come avete potuto vedere nello spettacolo di oggi (ridono, ndr).
Ecco, come nasce The Human Jukebox e quanto lavoro c’è dietro ad uno spettacolo che sembra improvvisato, ma che in realtà è davvero elaborato?
The Human Jukebox ha avuto addirittura uno spettacolo-pre, perché noi venivamo da un teatro diverso come il musical appunto, dove c’è sempre la quarta parete, e non eravamo assolutamente abituati al pubblico. Dunque abbiamo creato questo spettacolo di repertorio, si chiamava all’epoca Oblivion Zip, che era un po’ il nostro archivio dove facevamo tutti i nostri pezzi di repertorio ma con la sfida di farli scegliere al pubblico. Questa cosa era nata come una sfida estiva. Ci eravamo proposti di rompere un po’ gli schemi, dialogando con il pubblico ed andando nel lato cabarettistico, ma poi ci abbiamo preso gusto ed è nato il jukebox, dove i cantanti vengono scelti dal pubblico a tutti gli effetti. Questo è stato reso possibile anche dal fatto che abbiamo un repertorio vastissimo collezionato negli anni. Abbiamo deciso di “giocare” un po’, accettando il rischio di un pezzo che nasce sul momento ma che non è impeccabile.
Inoltre, stare sul palco in cinque è molto difficile. Abbiamo passato i primi sei mesi a parlarci sopra, adesso un po’ meglio, solo un po’ però (ridono, ndr).
Progetti per il futuro?
Sì, la nostra tradizione è quella di cambiare strada radicalmente ogni due anni. Facevamo uno spettacolo a sketch che era The Oblivion Show, lo abbiamo trasformato in qualcosa che avesse un tema che era il Sussidiario, volevamo fare guerra e pace ma c’erano solo due protagonisti e siamo in cinque (ridono, ndr). Poi abbiamo fatto una storia incentrata su Otello, e adesso vorremmo fare un musical originale. La smetteremo di “massacrare” le canzoni di altri, ma ci daremo ad un tema piuttosto condiviso con canzoni e musiche nostre originali. Il tema metterà d’accordo tutti: la Bibbia (ridono, ndr).
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