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Viaggiare in India da studenti

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Il disincanto di un Paese lontano

di Federico Pozzi

Ammetto che sono partito per l’India con l’ingenua speranza di trovare un mondo diverso, un modo diverso di approcciarsi alla vita. Immaginavo un’integrità orgogliosa nelle condizioni estreme a cui costringe la povertà. Speravo di tornare a casa pensando che alla fine basta qualche briciola di pane e magari un solido rapporto con il divino, in qualunque modo lo si voglia chiamare, per sentirsi in pace con se stessi. Invece no. L’impatto con l’India è stato violento.

Sono sbarcato a Varanasi nell’afa cocente di un weekend di luglio. Varanasi è la città sacra dell’India, la meta di pellegrinaggi che hanno come missione le abluzioni sacre sulle sponde del Gange, che secondo la religione indù fermerebbe il ciclo di reincarnazione a cui altrimenti gli indiani non possono sottrarsi. Il sacro è però fratello del profano, così che le melodiose litanie che riecheggiano nelle vie fanno da sfondo ad una realtà soffocante. Le vie pullulano di uomini e animali che si accalcano in un marasma in cui è difficile distinguere gli uni dagli altri, i rivoli ai bordi delle strade emanano un odore acre di escrementi che si confonde a quello di curry che fuoriesce da qualche bettola di terza mano, mentre i mendicanti si sdraiano laidi tra i rifiuti e grovigli di fili elettrici penzolano dai tetti delle baracche. Nemmeno l’udito vive in pace, urtato dai clacson dei risciò che ingorgano il traffico e dalle urla dei mercanti che invitano i turisti dentro ai loro negozi in modi falsamente gentili.

Quello che mi ha più colpito è però la mancanza di dignità di questi luoghi. Gandhi ha lasciato in eredità all’India un messaggio di riconciliazione tra vita e povertà, ha innalzato il non possesso a via maestra per l’armonia. Io però non ho visto armonia, né equilibrio, né sorrisi. Ho visto piuttosto occhi affamati, avidi di scalare una piramide sociale che in India è particolarmente immobile, immortalata in un sistema delle caste illegale, ma ancora vivo negli strati più poveri del paese.

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Certo, ho conosciuto anche persone molto generose e tanta bellezza, come il Taj Mahal ad Agra, il più imponente atto d’amore al mondo: fatto costruire da un imperatore Moghul in memoria della moglie tanto venerata, che si chiamava appunto Mahal. Oppure l’ospitalità di un anziano signore, che oltre ad una stanza Airbnb ci ha lasciato, a me e alla mia ragazza, alcuni gesti di inaspettata gentilezza.

Non sono però riuscito ad infrangere l’enorme barriera culturale che mi divideva dalle persone più povere che ho incontrato: io ero sempre il turista occidentale da cui bisognava in qualche modo spillare qualche rupia. Non ci sono riuscito ed è colpa mia: non ce l’ho né con l’India, né tanto meno con gli indiani. Mi rimane però l’amarezza di non aver trovato la luce oltre a quegli sguardi impenetrabili. Credo che dovrò tornarci prima o poi.

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