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Ciò che Frida mi ha dato

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A Città del Messico è una giornata forse come tante altre, o forse no. Una donna si toglie i vestiti, lentamente, facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi. Delicatamente, scavalca la parete della vasca da bagno e rimane ferma, in piedi. Il contatto delle caviglie con l’acqua bollente diffonde una strana scossa nel resto del suo corpo. È piacevole. Mentre si piega per immergersi completamente, una fitta di dolore lancinante le trafigge la schiena, talmente forte da farla sentire come se le membra combattessero dentro di lei per rompersi in mille pezzi. Conosce molto bene quel dolore; è un suo fedele compagno da tredici anni ormai.

Finalmente si appoggia contro il liscio schienale, e si lascia sprofondare lentamente, un po’ alla volta, fino a che la pianta dei piedi non sfiora la ceramica fredda. Chiude gli occhi, e si gode per un attimo la sensazione di evaporare in un caldo e avvolgente abbraccio. Quando li riapre, si ritrova difronte alla sua nudità. Ella era, e si sentiva, donna. Eppure quell’incidente, tanto tempo prima, l’aveva condannata ad abitare in un corpo mutilato, sofferente, deforme. La possibilità di generare figli le era stata strappata via dalla crudeltà della sorte, quello stesso giorno in cui quasi per miracolo il suo cuore non si era fermato. La sua vita aveva avuto un prezzo molto caro: il non poterne dare alla luce una nuova.

Tutt’a un tratto, sul filo dell’acqua trasparente che le sommergeva il corpo, vede galleggiare la sua vita. Vede i suoi genitori così stabili, retti e amorevoli, i cui sforzi non sono bastati per impedire al dolore di raggiungerla, che sembrano scomparire come dietro una selva di ricordi lontani. Rivede le donne della sua vita, il volto di sua sorella, il corpo morbido delle sue amanti, e ricorda con quanta leggerezza le confidenze e le carezze femminili facessero all’anima un bene tenero, profondo e impagabile. Rivede anche l’uomo della sua vita, ma scaccia il pensiero velocemente, trasformandolo in una presenza anonima e senza volto, nello spettatore impotente di uno spettacolo del quale non merita più di far parte. Ha seguito quell’uomo per il mondo, per lui è stata disposta ad andare lontano dai suoi colori e dalla sua luce. Con lui ha visto la grandezza delle metropoli americane e ne ha subito il fascino magnetico, fino a sfiorare quasi l’idea di esserne parte. Che sogno, New York… che sogno. In un attimo, però, il loro castello di fantasie era andato in polvere come in una violenta eruzione vulcanica.

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Pensa alla morte. Pensa alla vita. Pensa a come la morte e la vita siano tenute insieme da un filo sottilissimo, teso in mille diverse trame, che le avvolge la gola fino a farla soffocare. Sa che la vita può resistere al filo, sa che ci si può stare in equilibrio sopra, eleganti e leggiadri come libellule primaverili posate su lunghi e sottili steli di fiore. Sa che la vita prevale anche se sopraggiunge il pensiero della morte, semplicemente lo sa. Eppure non riesce, proprio non riesce a liberarsi dalla stretta di quel maledetto filo.

Sul pelo dell’acqua le sembra di scorgere anche uno di quei suoi vestiti colorati e accoglienti, che le ricordano le indipendenti donne di Tehuantepec. Tra le pieghe di quell’abito forse si nasconde una speranza, una pace che attende solo di essere indossata. Il vestito sembra quasi attendere con pazienza che la donna che lì accanto combatte per non annegare riesca a liberarsi per indossarlo e affrontare una nuova vita, su una nuova riva.

Di dolore, lei ne aveva provato tanto. E ora come in un sogno stava lì, in scena di fronte a lei. Eppure nessun fantasma le era ancorato come un destino immutabile. Ogni mostro galleggiava silenzioso sulla precarietà dell’acqua, pronto a svanire nei fumi del vapore nel momento in cui la sua gamba si fosse alzata fino ad increspare l’acqua.

Sente un’improvvisa leggerezza farsi largo dentro di lei, pensando a come il futuro sia sempre una tavolozza immacolata, su cui ancora tutto è da definire. Senza aspettare un secondo di più si alza in piedi, e vede il bagaglio pesante della sua vita svanire in uno schizzo.

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Non da questo racconto, e probabilmente da nulla che gli somigli, vide la luce il noto quadro di Frida Kahlo “Ciò che l’acqua mi ha dato”.

Non conosceremo mai il significato più profondo di quelle visioni, di quell’universo caotico di pensieri che affiorano sulla tela finita. Sappiamo solo che una donna visse, e così come visse sentì, vide, e dipinse.

Ciò che l’acqua donò a Frida, forse non potremo mai capirlo. Ma ciò che Frida donò a noi, ce lo abbiamo sotto gli occhi. Ci ha lasciato un esempio di coraggio e di passione, un incoraggiamento a rincorrere la libertà come pochi altri se ne possono trovare. Ci ha donato uno sguardo sincero e innocente sulla sofferenza, imponendoci di non pensare che tutto il male sia sempre nascosto in un angolo buio a prendere polvere. Il dolore è alla luce del sole, e nasconderlo non fa altro che imprigionarlo dentro di noi, permettendogli di svuotarci dall’interno. Il dolore è anch’esso vita, e la vita va incontrata ogni giorno a testa alta, come nei celebri autoritratti di Frida, magari con indosso un colorato vestito tradizionale di Tehuantepec.

Ogni dettaglio della vita è degno di essere vissuto, perché la tavolozza della nostra esistenza, per quanto dramma e buio possa portare, alla fine non potrà che dar luce a un bellissimo, sincero e sgargiante olio su tela.


di Margherita Maria Mancini

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