Intervista alla Dottoressa Bruna Rossi, psicologa dei grandi campioni, nonché ex-atleta olimpionica di tuffi.
I riflettori si accendono, lo spettacolo ha inizio: l’atleta o la squadra devono dare il meglio di se stessi di fronte ad un pubblico bramoso di emozioni. Tanti occhi puntati, da vicino e da lontano, su una performance che decreterà un solo vincitore e molti vinti. Più il contesto di gara è importante, più il peso psicologico che l’atleta deve sostenere diventa gravoso: un giudizio inappellabile che ha il potere di promuovere un comune mortale a supereroe o relegarlo inesorabilmente nella sfera dei perdenti. Che la mente possa influire in modo significativo sulla performance dell’atleta è un dato acquisito da tempo, ed è per questo che molti atleti e molti Club professionistici si avvalgono di una consulenza di psicologia sportiva. La continua pressione psicologica a cui un atleta è sottoposto, se non viene gestita correttamente, può rappresentare una minaccia per il proprio equilibrio emotivo? Abbiamo a questo proposito intervistato la Dott.ssa Bruna Rossi che ha seguito, in qualità di psicologa, molti atleti di fama mondiale di innumerevoli discipline sportive: ha curato la preparazione di varie squadre sempre vincitrici di medaglie (Pentathlon Moderno, Pallanuoto e Pallavolo) e di atleti di discipline individuali (Federica Pellegrini), per altre 7 edizioni dei giochi Olimpici (da Los Angeles 1984 a Tokio 2021). Per gli Sport non Olimpici, è stata la psicologa del Team Prada (Coppa America, Luna Rossa) e per 11 anni della Squadra di calcio dell’Inter.
Dottoressa, in occasione di competizioni di livello prestigiosissimo (Olimpiadi, Campionati del Mondo) può insidiarsi nella mente del campione il timore di non rispondere adeguatamente alle aspettative generali? Quando il mondo intero già ti osanna, aumenta il rischio di essere colto da un’ansia “paralizzante”?
Certamente più la posta sportiva in gioco è alta, più le reazioni ansiose si fanno sentire. Il timore di non rispondere alle aspettative però è un timore che nasce spesso molto prima, proprio nel momento in cui un atleta comincia ad avere successo, se quest’ultimo non è ben gestito. Da una parte, infatti, il successo rinforza l’autostima e ha effetti positivi sullo sviluppo della personalità dell’atleta, dall’altra però, se arriva troppo in fretta o è “inaspettato”, può generare un’ansia da prestazione che complica non poco le cose. Le prime aspettative ad essere deluse quando si arriva ad una contro-prestazione sono proprio quelle che l’atleta stesso si è costruito. Se non è adeguatamente preparato a considerare gli insuccessi come facenti parte del percorso normale per progredire, l’atleta rischia di vedere l’insuccesso non come un’occasione per analizzare meglio le cause che lo hanno determinato e un incentivo a migliorarsi, ma solo come un’emozione negativa e destabilizzante. E ad averne, più o meno inconsciamente, paura. Alle proprie aspettative si aggiungono inesorabilmente quelle del mondo che lo circonda: le aspettative dei genitori quando l’atleta è molto giovane, quelle dell’allenatore e del contesto sportivo nel quale è immerso e, successivamente, le aspettative del mondo mediatico che aumentano con l’aumentare della visibilità che l’atleta acquisisce. Nell’alto livello sportivo, i media danno grande risalto alle vittorie, ma anche, troppo spesso, un esagerato risalto alle sconfitte: l’atleta, pertanto, è necessariamente chiamato a imparare a gestire l’ansia della notorietà.
Come può un atleta gestire in maniera efficace queste emozioni, orientando la propria attenzione esclusivamente sull’obiettivo da raggiungere?
Non a caso la gestione dell’ansia è una delle tematiche centrali in psicologia dello sport. Va però considerato che, al di là delle caratteristiche e delle problematiche individuali di ciascun atleta e della sua storia personale (che vanno analizzate e supportate per prime in tutti i casi), non tutte le discipline sportive sono ugualmente sensibili, in termini di prestazione, agli effetti potenzialmente negativi dell’ansia. Gli sport di squadra, ad esempio, sono tendenzialmente meno ansiogeni di quelli individuali, nei quali l’atleta non può condividere le responsabilità del risultato con i compagni. Il gruppo, se ben coeso, aiuta non poco a sentirsi sostenuto e protetto. Fanno però eccezione momenti nei quali anche l’atleta dello sport di squadra è improvvisamente “solo” e si trova, per di più, ad avere sulle spalle “la sorte” del gruppo. Mi riferisco, ad esempio, alla “battuta” nei momenti caldi di una partita di pallavolo o, ancora di più, al tiro di rigore nel calcio. Atleti mondialmente noti ne hanno fatto le spese! Dei distinguo vanno poi fatti per un altro tipo di peculiarità delle specialità sportive: il tipo di impegno mentale che esse richiedono. Le discipline cosiddette a “Closed skill”, come il nuoto ad esempio, si svolgono in un ambiente per lo più costante. La prestazione, in termini di impegno mentale, dipende essenzialmente da informazioni propriocettive e da programmi motori costruiti ed affinati nel tempo dall’atleta in allenamento. Le “Closed skill” sono più “resistenti” rispetto all’impatto negativo dell’ansia di quelle cosiddette a “Open skill”. Nel primo caso il gesto motorio è infatti ciclico e l’azione si protrae per tempi più o meno lunghi senza andare incontro a cambiamenti particolari se non quelli dettati dalla strategia di gara decisa dall’atleta. Nel secondo, invece, la prestazione è strettamente dipendente dai cambiamenti che si verificano momento per momento nell’ambiente esterno (sport di opposizione diretta quali la scherma o la pallacanestro). La selezione delle informazioni da analizzare, l’anticipazione sullo svilupparsi degli eventi, la selezione e l’esecuzione della risposta più adatta, hanno “costi” altissimi in termini d’impegno mentale e basta ben poco per perdere la concentrazione. Anche l’elevata richiesta di precisione e di velocità esecutiva del gesto motorio incidono pesantemente sull’ansia da prestazione (tiro a segno, tiro con l’arco, golf, ad esempio) rispetto a discipline nelle quali forza e resistenza giocano il ruolo principale nell’ottenimento del risultato. Da quanto detto risulta chiaro che l’intervento psicologico sull’ansia nell’atleta varia caso per caso, deve essere specifico per ogni disciplina sportiva e che, in più, è estremamente personalizzato quando si interviene su atleti di altissimo livello. Le tecniche d’intervento disponibili per la gestione degli stati ansiosi nello sport sono molteplici (vari sistemi di attivazione/disattivazione, comunemente noti, in termini molto riduttivi, come tecniche di rilassamento; il biofeedback; la meditazione) ed è importante affiancarle alla preparazione tecnico-sportiva di una atleta agonista assai presto. Un intervento ottimale non può consistere nel mero apprendimento di una metodica e non può comunque mai prescindere dall’analisi approfondita dei fattori caratteriali e di personalità dell’atleta e delle sue peculiarità cognitive. È necessario occuparsi prima della “persona” e poi dell’atleta per poter intervenire efficacemente sui problemi di ansia sportiva. Mi è capitato spesso di sentire alcuni “addetti ai lavori” consigliare agli atleti di lasciare le proprie preoccupazioni personali “fuori dal campo”, quando invece è di fondamentale importanza prenderle in seria considerazione. Lo sport è senz’altro un’attività utilissima a scaricare tensioni, ma in ambito agonistico l’atleta è ormai sottoposto ad uno stress ripetuto, a volte eccessivo e manifesta, più spesso che in passato, reazioni ansiose disturbanti anche per il suo benessere personale.
Quando un atleta è costretto per età o a causa di un infortunio a ritirarsi dalle scene, può essere compromessa la sua futura salute psico-fisica?
Interrompere l’attività sportiva in seguito ad un infortunio è molto diverso dal terminarla per raggiunti “limiti di età”. Nel primo caso, agli aspetti classici di un cambiamento importante nello stile di vita, si aggiungono il fatto che tale cambiamento è drastico, immediato, doloroso e che, comunque, un “incidente” che mette a repentaglio la salute fisica della persona comporta di per sé dei problemi psicologici che vanno affrontati. Questo anche se l’atleta ha di solito buone capacità di “resilienza”. Nel secondo caso invece, si ha la possibilità di prepararsi in tempi ben più lunghi. L’atleta può decidere quando e come uscire di scena e, anche se porre fine alla propria carriera agonistica è considerato comunque un momento “critico” della vita d’uno sportivo d’alto livello, la transizione è graduale e sotto il controllo dell’individuo. Ciò non toglie che esista il rischio di sviluppare stati patologici di tipo depressivo (in alcuni rari casi anche l’anoressia). È importantissimo, quindi, che l’atleta abbia sempre un’altra alternativa già durante la sua carriera sportiva. Io insisto molto con gli atleti sull’importanza, ad esempio, di non abbandonare gli studi. Mi piace ricordare che la squadra di pallanuoto italiana Campione del Mondo è del tutto composta, tranne che per un atleta, da laureandi o laureati, anche in discipline impegnative. I tempi per terminare gli studi saranno magari più lunghi, ma una “testa” allenata in più ambiti presenta vantaggi obiettivi già durante la vita agonistica e importantissimi a fine carriera!
Un’ultima domanda, dottoressa Bruna Rossi: la “fama perenne” è una condizione esistenziale sempre e comunque vantaggiosa?
La fama è difficilmente “perenne”. In effetti anche i più grandi atleti di discipline popolarissime sono ricordati come “famosi” solo nell’arco di una generazione, forse due! Poi nuovi campioni saliranno all’onore delle cronache e affievoliranno necessariamente l’immagine “gloriosa” di chi li ha preceduti. L’importante è considerare la fama come un riconoscimento pubblico per l’impegno, la perseveranza e la capacità, acquisita giorno per giorno di migliorarsi per raggiungere degli obiettivi. Niente di più. Se durante la propria carriera sportiva sono stati allenati adeguatamente sia il fisico che la mente, l’ex-campione disporrà di tutti gli strumenti per poter affrontare nel modo più opportuno anche ambiti di attività diversi dalla prestazione sportiva che è necessariamente limitata all’età giovanile. In questo caso, la “fama perenne” continuerà a rappresentare per lui un’eredità vantaggiosa e non un’ossessione nella quale restare emotivamente imprigionati.
Born and raised in Rome, I studied in a German school and practiced competitive swimming since I was a little kid. Now I am attending CLEACC at Bocconi University, hoping that this new chapter of life will let me delve into my own interests, in particular into those concerning the conscious development of human potential.