Le reiterate manovre di politica monetaria espansiva adottate dalle principali banche centrali dei paesi industrializzati (prima la Fed, poi la Bank of England e più di recente la BoJ e la BCE) sottolineano come la crisi economico/finanziaria che ha avuto inizio nel 2008 sia tutt’altro che terminata. Per il dibattito e l’interesse che hanno suscitato, vale la pena di soffermarsi sulle ragioni – apparentemente diverse – che hanno spinto la BoJ e la BCE ad approvare un nuovo ed ulteriore taglio dei tassi d’interesse.
Alcuni articoli, pubblicati nelle scorse settimane, sul quotidiano economico “Financial Times” paventavano il rischio di una guerra di valute innescata da una serie di interventi – culminati con l’iniezione di grosse quantità di moneta sul mercato – della BoJ, pilotati dal governo nipponico. La ragione del radicale cambio di condotta della BoJ è alquanto chiara ed è stata sin da subito oggetto di critiche da parte degli economisti di tutto il mondo: svalutare lo YEN rispetto alle divise dei principali partner commerciali del Giappone, ovvero Stati Uniti ed Europa, per tentare di uscire dalla trappola deflazionistica. L’economia nipponica vive, da circa un ventennio, una stagnazione economica tanto severa da essere esempio didattico nelle aule universitarie di tutto il mondo; indubbiamente la possibilità di far ripartire le esportazioni – e con esse l’economia dell’intero paese – alletta notevolmente il governo.
Senza tardare molto, al termine della scorsa settimana, è puntualmente arrivato il taglio dei tassi (di un quarto di punto percentuale, 25 basis point) da parte della BCE, che non vuole assolutamente assistere da spettatore a questo rocambolesco valzer di valute. L’intervento dell’Eurotower era ampiamente prevedibile e la giustificazione formale di questa manovra trova origine nell’intento della BCE di spezzare il circuito perverso della stretta creditizia che attanaglia le economie dei paesi dell’Europa meridionale.
L’effetto immediato di queste manovre è stato quello di infondere un rinnovato ottimismo sui mercati finanziari di tutto il mondo: rialzo immediato dei listini delle principali piazze del Vecchio Continente e di quelle mondiali, differenziale dei rendimenti tra i titoli di stato dei paesi periferici dell’eurozona e bund tedeschi di riferimento ai minimi (da sottolineare come il Portogallo per la prima volta sia tornato in asta) e operatori finanziari nuovamente disposti ad acquistare anche “spazzatura” pur di comprar qualcosa. Da una lettura superficiale di questi dati si potrebbe giungere alla conclusione fuorviante di un miglioramento della congiuntura economica complessiva.
Nella realtà dei fatti, come nello sport, anche questa forma di doping – liquidità abbondante immessa sul mercato da parte delle banche centrali per sostenere la crescita – non è che un altro modo per nascondere la polvere sotto il tappeto. Né al Giappone, né tantomeno all’Europa basteranno questi provvedimenti per risolvere i loro annosi problemi.
Per quanto riguarda l’Europa, in particolare, la manovra della BCE assume i connotati di un intervento che ha il fine di prender tempo in attesa che provvedimenti più decisi e concreti vengano attuati. Il vero problema che pesa sul nostro continente e che ne rende incerte le sorti della sua economia ha un carattere prettamente politico. Da tempo, ormai, è in corso un dibattito che vede contrapposti i paesi nordici (Germania in testa) ai paesi periferici (tra cui la stessa Italia) il cui tema riguarda la necessità di conciliare crescita e politica di rigore sui conti pubblici.
Robert Mundell in un suo studio, pubblicato nel lontano 1960, dal titolo “A theory of optimum currency area” sottolineava come la creazione di una moneta unica in un’area geografica come quella europea sarebbe stata alquanto difficile da attuare in quanto al suo interno coesistono dei paesi che hanno dei fondamentali economici (mercato del lavoro, debito pubblico, tasso di crescita dell’economia etc.) molto diversi tra loro. Da ciò si intuisce come il dibattito in corso sia di vitale importanza per le sorti stesse della moneta unica. A tutti è ormai chiaro che un’unione economica e monetaria poggia le sue basi su una solida unione politica e sociale: non è più sostenibile e reale l’idea di un’Europa che viaggi a due o tre velocità.
La nostra speranza e il nostro auspicio è che anche questa impasse presto si risolva con un accordo che contemperi l’esigenza del rigore nei conti con quella della crescita.
Dopotutto, anche in questo caso, vale la pena ricordare che “in medio stat virtus”.
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