Non solo teatro. Resistenza. Scelta. Possibilità. Creatività. Impegno. Questo è il Nuovo Teatro Sanità. Mario Gelardi, drammaturgo e regista teatrale, ne è il direttore artistico da ormai cinque anni, durante i quali questo teatro si è affermato come una realtà culturale matura e consolidata nel cuore di Napoli: tra l’analfabetismo e la droga, il Nuovo Teatro Sanità è oggi accettato e protetto dalla comunità stessa, poiché rappresenta un luogo di crescita e di speranza, un’alternativa dall’altra parte del marciapiede che vale la pena di scegliere. Prima ancora di divenire protagonisti dello spettacolo teatrale “La paranza dei bambini”, tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano, gli eroi fragili sono i ragazzi del rione Sanità che, abbandonati a se stessi, scelgono di cedere ad un destino fatto di violenza. Ecco quindi che si fondono finzione teatrale da una parte e realtà al limite dell’assurdo dall’altra. Una commistione entro la quale è facile perdersi.
I ragazzi che stanno interpretando “La paranza dei bambini” hanno vissuto loro stessi la realtà che raccontano. Come è stato possibile conciliare la loro esperienza di vita con quella teatrale? Quale è stato il loro percorso?
La compagnia teatrale del Nuovo Teatro Sanità accomuna persone diverse. Da una parte ci sono attori più grandi, con esperienze formative ed accademiche variegate. Dall’altra parte abbiamo un gruppo di sei giovani attori, nati e cresciuti nel rione Sanità. Sono cresciuto insieme a molti di questi ragazzi, molti li ho conosciuti quando avevano sedici o diciassette anni. Si è formata tra di noi un’idea comune di teatro. Loro stessi hanno scelto di costruire un teatro in una chiesa del Settecento, in un quartiere difficilissimo di Napoli. Il rione Sanità conta più di 50 mila abitanti ed ha il tasso di abbandono scolastico più alto di Europa. Per quanto bellissimo, è un quartiere da sempre connotato da una chiusura e da una infiltrazione camorristica molto alta. I ragazzi della compagnia Nuovo Teatro Sanità sono un faro, una luce in questo quartiere perché hanno deciso di trovare strade diverse con la cultura e con il teatro. Il Nuovo Teatro Sanità è diventato una realtà e, come dice Carlo Geltrude, uno dei nostri ragazzi, noi siamo quelli che hanno scelto di stare dall’altro lato della strada.
Come è stato inserirsi nel contesto del rione Sanità ma soprattutto come è la convivenza con “il vicinato”? Come è visto dagli altri un ragazzo che decide di frequentare il teatro e dedicarvisi?
La convivenza è senz’altro ottima. Noi siamo un teatro di comunità. La gente del rione sente questo come il proprio teatro. Facciamo laboratori gratuiti per ragazzi e bambini del rione stesso, quindi qui arrivano genitori, figli, nipoti: tutta una comunità si è formata attorno al teatro. Creare comunità intorno al teatro è una cosa antica ed è una cosa che si è persa in questo mondo di teatro fatto solo di tabelle ministeriali. Noi abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso, il quartiere ha imparato a conoscerci ed ora sente questo teatro come un patrimonio, lo difende, ci aiuta. Tutti ci aiutano, anche semplicemente indirizzando la gente verso di noi quando non ci trova.
Un aiuto che viene più dal basso che dall’alto. I contributi statali sono praticamente pari a zero. Da dove provengono le vostre forze e quali sono le vostre fonti di energia?
Ne abbiamo diverse. Noi agiamo su più fronti. Innanzitutto, facciamo dei progetti di formazione e li portiamo in diverse fondazioni. Una tra tutte, ad esempio, è la Fondazione Con il Sud. Portiamo questi progetti di formazione e per fortuna vinciamo bandi, che ci permettono di sostenere il lavoro quotidiano. Un’altra fonte di sostentamento assolutamente importante è il cartellone teatrale che abbiamo durante tutta la stagione, che ci permette di avere una liquidità continua durante i mesi e quindi di portare avanti la struttura.
Quali speranze e quali progetti avete per il futuro del Nuovo Teatro Sanità?
Ovviamente, quello che vogliamo fare è dare stabilità al Nuovo Teatro Sanità. Abbiamo proposto nuovamente domanda al Ministero, che tre anni fa ci ha bocciato. Speriamo questa volta di avere un riconoscimento dallo Stato. Pensi che noi, pur essendo un teatro indipendente che non prende sovvenzioni, quest’anno abbiamo vinto il Premio Rete Critica, assegnato da trenta giornalisti nazionali di teatro, per la miglior organizzazione e il miglior progetto teatrale italiano. Noi, piccoli, in mezzo a questo marasma di teatri che prendono soldi dovunque. Quindi sicuramente cerchiamo un riconoscimento da parte dello Stato ma, se non da parte dello Stato, il punto fondamentale per noi è che il comune di Napoli ci assegni il bene in cui siamo. C’è una volontà molto forte da parte del comune, speriamo che nel giro di pochi mesi questa volontà si traduca in un gesto concreto da parte delle istituzioni, un gesto che dimostri e riconosca il lavoro che abbiamo fatto, affidandoci il bene in cui siamo.
Nel 2007 la versione teatrale di “Gomorra”, nel 2010 “Santos”, oggi “La paranza dei bambini”: come è collaborare con una figura, un uomo come Roberto Saviano?
Il rapporto tra me e Roberto Saviano è un rapporto lungo. Ormai sono dodici anni che lavoriamo insieme. Così come è accaduto per “Gomorra”, anche per “La paranza dei bambini” abbiamo iniziato a lavorare allo spettacolo prima ancora che il libro fosse finito. Roberto è venuto varie volte qui, ha incontrato i ragazzi, ha parlato con loro, ha iniziato a raccontare quello che stava facendo e come stava costruendo i personaggi. C’è stato un lavoro di costruzione avvenuto insieme. Poi, una volta terminato il libro, come sempre Saviano mi ha detto “fa’ tu”: sa e capisce che il teatro ha delle esigenze narrative e strutturali diverse dalla letteratura. Ad esempio, per praticità io ho unito personaggi diversi in uno unico. Devo dire che in questo Roberto è molto vicino e c’è possibilità di consultarci continuamente. Lo abbiamo sempre fatto, con la ovvia difficoltà ed il limite per cui non si può immaginare me e Roberto scrivere insieme dietro un computer. La nostra collaborazione non avviene così, ma è uno scambio continuo di messaggi, fogli e cose scritte, di incontri ricavati alle presentazioni dei libri: abbiamo seguito tutte le presentazioni del libro “La paranza dei bambini” in giro per l’Italia, quindi di volta in volta lavoravamo su alcuni pezzi.
Per quanto riguarda la traduzione dell’opera scritta nell’opera teatrale, “La paranza dei bambini” ha fatto molto riferimento alla graphic novel nella messa in scena. In che modo questo genere così particolare viene in aiuto al teatro?
Cercavamo un codice visivo ed anche linguistico diverso da “Gomorra”. Cercavamo qualcosa che non fosse già visto e già sentito. Da quando abbiamo fatto lo spettacolo di “Gomorra”, ci sono stati anche un film e una serie: si è creato un vero e proprio immaginario intorno a “Gomorra”. Per “La paranza dei bambini” sono partito dalla graphic novel perché questi personaggi sono epici nella loro fragilità: sono persone, ragazzini che fin da piccoli decidono il loro destino e mettono in conto di avere un destino tragico, proprio come fanno gli eroi. Da lì l’idea della graphic novel. Frank Miller toglie essenzialmente i colori. La particolarità di questo spettacolo è che non ci sono colori, c’è solo il nero e c’è un rosso finale, che anche è una cosa tipica di Miller. La luce, quando c’è, è una luce rubata, è una luce che va a finire spesso negli occhi dello spettatore, è una luce che non illumina ma acceca. In questo modo abbiamo creato un mondo fatto di silhouette in cui la violenza è sublimata e quindi diventa qualcos’altro.
Come diceva prima, il teatro è una forma comunicativa che si è un po’ persa oggi o che comunque non è più comune come un tempo. Però uno spettacolo teatrale può davvero segnare una persona. Quindi secondo lei quale è la forza comunicativa ed educativa del teatro oggi? Soprattutto, a chi riesce ad arrivare questo mezzo rispetto agli altri?
Questa non è certamente una domanda facile. Risponderò dal mio punto di vista. Il teatro è l’unica arte rimasta collettiva, che prevede che si stia insieme a degli sconosciuti in uno stesso ambiente, in cui si condividono le emozioni e in cui si guarda tutti nella stessa direzione, scelta da qualcun altro. In qualche modo, però, il teatro è anche un’esperienza indipendente perché – mentre al cinema lo sguardo è guidato dal regista, che decide di dare un primo piano o un piano americano e così via – a teatro ogni spettatore crea il suo spettacolo. Il mio obiettivo principale è quello di comunicare a quante più persone possibili, di servirmi del teatro come mezzo di comunicazione, come arte che pone domande. Anche quando faccio teatro civile, come in questo caso, non ho risposte pronte e non intendo impartire lezioni su cosa sia la camorra. Io sono semplicemente lì a raccontare qualche cosa e a fare in modo che, come spero, lo spettacolo continui nella mente dello spettatore quando lascia il teatro. Ognuno ha dentro il proprio spettacolo, che può continuare anche dopo la visione. A volte ci riusciamo, a volte no. Mi sembra che con lo spettacolo de “La paranza dei bambini” ci stiamo riuscendo.
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