Risale al 30 gennaio la notizia dei primi due casi accertati di coronavirus in Italia: si tratta di due turisti cinesi che sono stati ricoverati in isolamento all’ospedale Spallanzani. Dopo alcune minimizzazioni iniziali, in cui il COVID-19 viene definito “poco più di una normale influenza” – Attilio Fontana, 25 febbraio –, il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus l’11 marzo dichiara che il “COVID-19 può essere caratterizzato come una pandemia”, specificando che “pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione.”
I numeri sono incalzanti: a metà marzo in Italia si raggiungono picchi con più di novecento morti e cinquemila nuovi contagi al giorno. I negozi sono chiusi e le strade deserte. Le persone mostrano solidarietà come possono sui balconi, ma il silenzio è assordante nelle province più colpite di Brescia e Bergamo, in cui una processione di convogli militari trasporta i morti fuori dalla città che non può più contenerne.
Ma cosa vive precisamente una persona che risulta positiva al coronavirus?
Ce lo racconta Noemi Orofino, giovane italiana residente in Inghilterra. Aveva intenzione di lanciare la sua impresa di moda questa estate, ma è stata fermata dal COVID-19. Lei e il suo fidanzato sono tra i primi cinquanta casi a Londra. Oggi, insieme, sono guariti e piano piano stanno tornando alla normalità.
Ciao Noemi, ti va innanzitutto presentarti?
Certo. Mi chiamo Noemi Orofino, sono italiana ma vivo a Londra da due anni. A dodici anni mi sono trasferita in America, ho completato i miei studi lì e mi sono laureata in marketing e pubbliche relazioni, poi ho fatto un master a Milano presso l’istituto Marangoni. Finiti gli studi mi sono trasferita a New York, poi a Londra. Ho sempre lavorato per marchi di lusso come Bottega Veneta e Stella McCartney; poi, sei mesi fa, ho lasciato il mio lavoro perché volevo lanciare una mia piccola impresa di moda qui a Londra, ma il coronavirus ha bloccato tutto. In questo momento sto lavorando al progetto ma ho un po’ le mani legate.
Parlando della tua esperienza, vorrei capire quali sono stati i primi sintomi, come li hai collegati al Covid-19 e quanti casi c’erano nella tua città quando hai avuto l’esito del tampone. Hai idea di come tu sia stata contagiata?
Il primo sintomo in assoluto è stata la tosse, poi una debolezza infinita del corpo che non avevo mai provato prima. Subito dopo febbre alta, a 39°. Devo dire che seguivo molto attentamente gli articoli e i telegiornali in Italia ed ero a conoscenza dei sintomi del COVID-19. Il giorno successivo alla comparsa dei miei sintomi si sono aggiunti quelli del mio fidanzato. Viviamo insieme, mi sono preoccupata molto. Sentivo che non era febbre normale, avevamo sintomi molto diversi dall’influenza comune. Nelle settimane successive si sono aggiunti forti dolori muscolari che mi immobilizzavano e non riuscivo a fare le cose più banali senza avere l’affanno. Ho addirittura perso l’olfatto e il gusto; non riuscivo a mandare giù mezzo boccone per via della nausea e, infine, respiravo con difficoltà. Mi sentivo mancare l’aria.
Riguardo a come sono stata contagiata non ho certezze, piuttosto due teorie, ma la seconda è quella di cui sono più convinta. La prima mi rimanda al periodo di San Valentino che ho trascorso in montagna a Sestriere, dove sono stata a sciare con il mio fidanzato. Quando siamo tornati a Londra il 17 febbraio mi sentivo abbastanza stanca, non stavo del tutto bene.
La seconda teoria, quello di cui sono più convinta, riguarda la visita di due mie amiche (tra loro sorelle, ndr) qui a Londra, il 28 febbraio. Stavano entrambe bene e non presentavano nessun sintomo, credo fossero nel periodo di incubazione. Il giorno dopo che ci siamo lasciate si sono sentite male. Alla fine, ho scoperto che prima di vedere me hanno incontrato il loro papà, che aveva la febbre da diversi giorni e stava molto male. Sono persone che viaggiano spesso, una delle due vive in Svizzera, l’altra in Francia.
Puoi spiegarmi brevemente la procedura a cui siete stati sottoposti e il tempo intercorso tra la prima visita e l’esito del tampone?
La prima cosa che abbiamo fatto è stata contattare l’NHS (il sistema sanitario nazionale, ndr) per fare il test che tuttavia ci è stato negato, dicevano che non eravamo in pericolo. Ci siamo presentati lo stesso al pronto soccorso il giorno dopo ma siamo stati cacciati e ci è stato detto di rimanere a casa, perché rappresentavamo un pericolo per gli altri. In Inghilterra non puoi presentarti al pronto soccorso, questa è una cosa che abbiamo scoperto dopo. Eravamo disperati, neanche i dottori privati ci accettavano, quindi abbiamo detto che eravamo stati in contatto con dei casi positivi pur non avendo certezza assoluta riguardo le mie due amiche (la cosa si è poi rilevata vera, ndr). Finalmente hanno accettato di farci il tampone e il 4 marzo sono venuti a prenderci in ambulanza; erano passati tre giorni dalla comparsa dei primi sintomi. Ricordo che tutti gli operatori erano in tute isolanti, completamente coperti, mi sembravano quelle della Nasa. Ci hanno portato al Chelsea and Westminster Hospital e abbiamo aspettato per quattro ore in ambulanza. Dopo, ci ha raggiunti un medico, anche lui completamente coperto, che ci ha fatto un tampone al naso e alla gola. Infine, ci hanno detto avremmo avuto i risultati tramite chiamata telefonica in due o tre giorni. Ed ecco che il terzo giorno è arrivato l’esito, il 7 marzo, in cui ci hanno comunicato che risultavamo entrambi positivi.
Quanto pensi sia durato il periodo di incubazione?
Sono quasi del tutto convinta di aver contratto il virus da queste mie amiche il 28 di febbraio, un sabato. I primi sintomi sono comparsi il 1° marzo, quindi il periodo di incubazione è stato di due giorni. Il mio fidanzato ha avuto i sintomi il giorno seguente. Nel nostro caso devo dire che il periodo di incubazione è stato molto breve.
Qual è stata la prima cosa a cui hai pensato una volta avuto l’esito del tampone?
Credo che sia stato il momento peggiore. Io e il mio ragazzo eravamo molto spaventati, la mia famiglia era in Italia e non avevamo idea di cosa sarebbe successo. Siamo stati tra i primi 50 casi a Londra, addirittura tra i primi 100 in Inghilterra. Immagina che qui solo ora stanno iniziando a prendere provvedimenti, gli ospedali si stanno attrezzando per accogliere i pazienti, ma quando è successo a noi nessuno aveva idea di cosa fare, sentivo che non erano preparati e questa cosa mi faceva paura. Non conoscevamo bene il virus e per quanto ne avessimo sentito parlare in tv, quando ti succede è un’altra cosa, non riuscivamo a capire appieno quello che stava succedendo al nostro corpo. Ogni giorno ci svegliavamo e scoprivamo un sintomo nuovo, quindi questa cosa ci ha preoccupati perché non avevamo nessun metro di paragone, non sai mai se è la normalità o se sei in pericolo.
Cosa è successo dopo?
Dopo mi hanno detto di rimanere a casa in quarantena per tre settimane. Non mi hanno ricoverata, anche se credo ne avessi bisogno, perché avevo difficoltà respiratorie. Ma non avevano strutture e nemmeno gli strumenti per aiutarmi. In ogni caso, ora, devo dire che sono stata molto fortunata perché mi sono ripresa senza necessità di cure specifiche.
Con chi hai affrontato questo periodo difficile?
Come ti dicevo prima durante questo periodo sono stata con il mio compagno. Durante la quarantena non siamo usciti di casa nemmeno per una boccata d’aria, sia perché stavamo fisicamente male, sia soprattutto per la paura di contagiare altre persone. Stiamo stati assolutamente soli. Solo durante la terza settimana siamo migliorati. La mia famiglia ha rappresentato un importante aiuto psicologico ed emotivo, anche se da lontano, perché i miei familiari vivono quasi tutti a Napoli. Come si può ben immaginare erano preoccupati e mi chiamavano in continuazione. Hanno trovato il modo di starmi vicino.
Questo virus ha scatenato anche un caos mediatico di grande rilievo. Quanto è pesato per te questo fattore, e hai avuto paura del giudizio degli altri?
Il caos mediatico non mi ha stressato più di tanto perché, come ti dicevo, siamo stati tra i primi casi qui in Inghilterra. I miei amici non avevano idea di cosa stesse accadendo e non conoscevano nessuno positivo al virus, sono stata una delle prime a vivere questa situazione. Devo dire che il vero caos mediatico si è creato dopo, ma non ho avuto paura del giudizio degli altri, anzi, ho cercato di diffondere il più possibile la mia esperienza e il fatto che anche se sei giovane puoi contrarre il virus. È importante essere responsabile per se stessi e per gli altri. Quindi, per me è stato di gran lunga più importante informare gli altri e non mi è importato molto del loro giudizio.
Cosa ti hanno detto i dottori riguardo alla convalescenza? Stai riuscendo a ritornare alla “normalità”?
A dire la verità, i dottori qui in Inghilterra sono stati quasi completamente assenti e sono molto delusa dalla mia esperienza con il sistema sanitario inglese; anche perché fortunatamente, da quando mi sono trasferita a Londra due anni fa, questa è la prima volta in cui ne ho avuto davvero bisogno. Adesso mi sento meglio rispetto alle scorse settimane, però sono svenuta tre giorni fa, sono stata male una seconda volta, ancora faccio fatica a salire le scale e devo prendermi i miei tempi per fare le cose. Gli strascichi si sentono. I dottori mi hanno detto che dovrei essere immune al virus, ma non è sicuro al cento per cento. Per quanto riguarda la situazione qui a Londra, da pochi giorni c’è stata la chiusura totale, quindi non la chiamerei normalità. Sono tutti a casa, si lavora da casa, i ristoranti sono chiusi, i negozi sono chiusi, non so quando ritorneremo davvero alla normalità.
Sembra che il picco non sia stato ancora raggiunto, credi che la gente abbia preso sottogamba la situazione?
La cosa che mi fa rabbia è che mi sembra che tutti abbiamo preso sottogamba la situazione perché percepivamo il virus come un qualcosa di lontano, confinato in Cina; ma una volta arrivato in Italia la diffusione è stata veloce, specialmente al nord. Paesi come l’Inghilterra e l’America avrebbero potuto prendere l’Italia come riferimento, ma si sono mossi troppo tardi e non si sono preparati adeguatamente all’emergenza. Al contrario l’Italia è stato il primo grande focolaio europeo e non credo potesse far di meglio. Da quello che sento da dottori e amici c’è sì disorganizzazione, ma è anche stata una situazione inaspettata e credo che tutti stiano facendo il massimo.
Per ultimo, cosa ti senti di consigliare agli altri e qual è la cosa di cui ha bisogno una persona che risulta positiva al COVID-19?
Come hai visto ho aperto il mio profilo Instagram e rispondo a domande di persone che nemmeno conosco. Mi chiedono del virus, di come ci si sente e quali siano i sintomi, vedo tutti quanti in panico totale. Hanno tutti paura perché, a parte i sintomi in sé, c’è una percentuale di mortalità che – anche se bassa – riguarda tutte le fasce di età, e questa cosa fa paura. Fa paura a tutti. Sto anche ricevendo molti messaggi di ringraziamento perché, anche se non sono un medico o una specialista, raccontando la mia situazione spero di aver lanciato il messaggio di “io ce l’ho fatta, quindi puoi farcela anche tu”. Una cosa che voglio sottolineare è la solitudine di chi affronta un virus del genere; non c’è tanto supporto da parte dei dottori e anche se vivi con la tua famiglia devi stare in quarantena, e mi rendo conto delle difficoltà di una situazione del genere. Quello che mi sento di consigliare è di non farsi affliggere emotivamente e restare positivi. La positività emotiva aiuta il sistema immunitario a reagire, diciamo che è il modo in cui inconsciamente aiutiamo il nostro corpo a combattere al cento per cento per sconfiggere il virus.