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Tra filosofia e scienza

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filosofiadi Marco Graziano

A uno studente che affronti il suo primo corso di microeconomia parrà ovvio classificare ciò che sta studiando tra le “scienze”: equazioni, dimostrazioni, curve e grafici abbondano e salta subito in mente il parallelismo con la fisica studiata al liceo. Ma non è sempre stato così.

Al contrario, le radici dell’indagine economica affondano nel terreno delle discipline umanistiche. Sin dagli albori, dai tempi di Smith e Malthus, lo studio dell’economia è stato affrontato come branca della filosofia morale e con precisi intenti normativi. Non si trattava solo dunque di calcolare l’allocazione ottimale di risorse scarse, ma anche e soprattutto di studiare il comportamento degli esseri umani nel loro rapporto con le attività produttive, focalizzandosi spesso sull’analisi di eventi passati e contemporanei e analizzandoli con argomenti che pertinevano al linguaggio e al metodo della politica, della storiografia e, appunto, dell’etica.

Questa tradizione è continuata fino a tempi relativamente recenti, basti pensare che Alfred Marshall e John Maynard Keynes, pur essendo quest’ultimo un illustre matematico, si dedicarono allo studio dell’economia nell’ambito dei Moral Sciences Tripos dell’Università di Cambridge.
La svolta avvenne intorno alla metà del secolo scorso, con l’avvicinamento a metodologie e strumenti tipici delle scienze positive, grazie al lavoro di studiosi come Hicks e Samuelson. Il secondo dei due, in particolare, premio Nobel nel 1970, dedusse i principi dell’equilibrio economico dalle leggi della termodinamica.

Si trattò di una vera e propria rivoluzione che, se da una parte diede un eccezionale contributo all’avanzamento della disciplina, dall’altra contribuì a creare confusione sulla sua natura, spingendo ad equiparare l’economia alla fisica, sulla base dell’applicazione dei medesimi metodi. Il ragionamento, apparentemente inattaccabile, è a grandi linee questo: se i modelli matematici sono validi per descrivere fenomeni economici, e se le teorie che essi descrivono sono verificate da dati empirici, allora l’economia può essere classificata tra le scienze positive.

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Ma che cosa definisce la “scienza”? Più che equazioni e corroborazione empirica, è scientifico ciò che può essere verificato (o meglio falsificato) in esperimenti ripetibili in ambiente controllato. Tale caratteristica non appartiene di certo all’economia: ricreare una società “in laboratorio” sarebbe pressoché irrealizzabile prima che decisamente discutibile sul piano morale. Il tutto senza dimenticare che, essendo l’indagine economica fondamentalmente votata a spiegare il comportamento umano, vi sono dei seri limiti al livello di oggettività sperimentale raggiungibile, proprio come nel caso della psicologia.

Ma tutto ciò non sembra a prima vista avere una qualsiasi rilevanza pratica. Anzi, sembrerebbe un problema relegato alle elucubrazioni di filosofi della scienza o di ricercatori pervasi da forti dubbi sulla validità del loro lavoro. Purtroppo ciò è ben lontano dalla verità. Spesso infatti i governanti, nel giustificare le loro scelte, impugnano come dogmi infallibili teorie economiche che, se applicate in maniera troppo rigida ed ortodossa, possono provocare disastri e mettono in pericolo il benessere dello Stato.

Se il contributo dell’economia alla politica è sacrosanto e fondamentale, è anche vero che che le teorie sono raramente considerate nella loro natura: ovvero modelli ristretti e resi astratti da postulati stringenti, spesso trascurati, e soprattutto ben lontane dalla certezza “scientifica”, sapientemente attribuitagli per soffocare il dibattito sotto una cortina di presunta verità.

In questo modo si nega la relatività della disciplina economica, rilevante non soltanto rispetto alla metodologia ma anche all’ideologia: gli stretti legami tra economia, politica e rapporti di potere fanno sì che certe teorie economiche possano rivelare di più riguardo ai pregiudizi di chi le formula che non riguardo ai fatti.

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La soluzione alla complessa crisi di identità di questa strana disciplina al confine tra filosofia e scienza non è semplice né univoca. La matematica è di fondamentale importanza in quanto strumento di costruzione di modelli comprensibili e duttili, ma d’altra parte il suo uso non è e non deve assolutamente essere scambiato per una garanzia di scientificità.

Non è certramente necessario tornare ai tempi in cui Adam Smith citava Omero nelle sue dissertazioni sulla ricchezza delle nazoni, ma è auspicabile un approccio più aperto, che consideri l’economia non come “scienza” sociale ma come “disciplina” sociale, tenendo sempre in considerazione l’impatto che contesto storico e sociale hanno su di essa e vice versa, aprendo così una strada per garantire una vera rilevanza alle teorie economiche applicate alla vita dell’ “Homo Sapiens” e non a quella dell’ “Homo Economicus”.

marco.graziano@studbocconi.it

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