Perché la lotta per i diritti civili ha senso da un punto di vista economico, oltre che umano.
Negli ultimi tempi notiziari e testate giornalistiche ci ripropongono sempre più spesso il mantra della “lotta ai diritti civili”, che in Italia fa seguito al DDL presentato dall’ On. Cirinnà e da tempo bloccato tra mille andirivieni nelle aule del Senato.
Nel frattempo, la “lotta per i diritti civili”, nel resto del mondo civilizzato, semplicemente non è più una lotta: è un dato di fatto ormai assodato. Dall’America all’Asia riconoscere alle coppie omosessuali pari dignità di quelle etero è stato un passaggio legislativo ormai approvato e superato, che al massimo potrà essere soggetto di ulteriori implementi.
Parlare di diritti civili per coppie dello stesso sesso significa parlare di legittimità giuridica dell’istituto matrimoniale davanti alla legge dello Stato, del diritto ad adottare figli, avere una famiglia così come accade altrove senza i catastrofici effetti che i più conservatori vanno millantando. In altre parole, significa riconoscere la pari umanità di tutte le persone facenti parte della stessa nazione.
Sotto un altro aspetto, tuttavia, significa anche parlare di economia e sviluppo economico e sociale. I motivi sono molteplici e di vari aspetti, come ha recentemente sottolineato il manager di UBS Paul Donovan, che ha sostenuto come l’adozione di normative che riconoscano pari diritti civili rappresenti un “booster” per l’economia dall’alto potenziale. Donovan si focalizza fondamentalmente sull’aspetto della mobilità: negli Stati Uniti, prima che la Corte Suprema sancisse la legittimità dei matrimoni omosessuali in tutti gli stati dell’Unione, il 51% della popolazione Lgbt si dichiarava pronto a spostarsi, ergo emigrare, verso quelle nazioni in cui avrebbero visto riconosciuti i propri diritti. Ovviamente, come Donovan sottolinea, ciò avrebbe implicato una riduzione della produttività media e quindi un danno economico. Fortunatamente la Corte Suprema è intervenuta lì dove persino il presidente degli Stati Uniti si è rivelato troppo debole.
Analizzando gli aspetti economici più dettagliatamente, tuttavia, ci accorgiamo che la produttività media non è che una delle tante implicazioni che i diritti civili hanno sul sistema economico di un paese. Ad ogni modo, partiamo dal dato con cui Donovan conclude la sua intervista: la mobilità.
In Italia un’altra costante giornalistica è la cosiddetta “fuga dei cervelli” o “fuga dei talenti”. Ogni anno più di 100.000 neolaureati lasciano l’Italia per trovare nuovi orizzonti lavorativi all’estero. Ma si tratta solo di nuovi orizzonti lavorativi? Una cosa è certa, se un neolaureato omosessuale avesse la possibilità di restare in Italia o trasferirsi all’estero, sarebbe semplicemente “doppiamente” invogliato a scegliere la seconda opzione: al di là delle Alpi non solo si ritroverebbe uno stipendio maggiore (o anche solo uno stipendio), ma anche la consapevolezza di entrare a far parte di sistemi statali che semplicemente riconoscono l’esistenza di determinate categorie di persone. Esattamente come negli US, se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto.
Inoltre, proprio come “doppiamente invogliato” a partire è chi non vede riconosciuta la qualità in termini monetari dei propri studi e la propria dignità in patria, “doppiamente disaffezionato” alle istituzioni statali sarà chi, per un motivo o per un altro, sia costretto a restare ed adeguarsi al sistema lavorativo e culturale nazionale. Un sistema culturale che, è il caso di dire, risente ancora di pesanti influssi da parte delle istituzioni religiose. A questo punto però è importante precisare che la responsabilità (negativa) di tale influsso non è da attribuire ad istituti religiosi che semplicemente predicano la propria dottrina, accettabile o meno che sia per il singolo. La responsabilità è invece da attribuire alla debolezza di chi ricopre cariche politiche, per continuare ad occupare le quali si è disposti a far leva sull’elettorato tramite la morale religiosa.
Non a caso, paesi con una forte vocazione religiosa e cattolica, quali Spagna, Francia o Irlanda, hanno introdotto nell’ultimo decennio una legislazione per il riconoscimento dei diritti civili. Stessa religione, diversa politica.
Se dovessimo stilare una classifica delle nazione europee per “ordine di arrivo” in materia di diritti civili e matrimoni omosessuali, i primi sarebbero gli Olandesi, con una legislazione addirittura datata 2001. A seguire Belgio e, in generale, paesi del Nord Europa. Abbiamo la Spagna nel 2005, la Svezia nel 2008, il Regno Unito nel 2013 e molti altri nel durante e dopo. Gli ultimi due esempi, Svezia e UK, sono particolarmente indicativi dal punto di vista economico e politico: in entrambi questi paesi, una legislazione “gay friendly” è stata introdotta da governi di centro-destra. Ciò assume particolare importanza dal punto di vista politico, proprio perché, paradossalmente, sancisce la maturata “apoliticità” in materia di diritti civili: non si tratta più di dibattito politico, è logica, dovuta umanità. Importanza assume anche dal punto di vista economico.
Osservando il trend di approvazioni di legislazioni pro diritti civili, ci accorgiamo come ci sia una forte concentrazione proprio in concomitanza degli anni bui della crisi: dal 2010 al 2015 più di mezza Europa si è dotata di legislazioni di questo “genere” (è il caso di dire). Una possibile interpretazione di questo fenomeno è una risposta alla crisi tramite tentativi di allargamento del mercato interno. Più coppie stabili e protette dal legislatore implicano più denaro in circolazione, la stabilità di essere componenti di un nucleo familiare porta ad investimenti, richieste di prestiti a banche cui si possano ora fornire adeguati collaterali e programmazioni per il futuro. In sintesi, per usare, ora in maniera più lata, un termine di Donovan, un vero “booster” per l’economia.
Cosa farà l’Italia non è ancora sicuro. Di certo è solo che saremo costretti (che di per sé non è una bella cosa) dall’Europa ad applicare qualche forma di riconoscimento, pena ulteriori multe milionarie per violazione dei diritti umani. L’unica speranza è che la politica si doti di una forza propulsiva tale da distaccarsi dalla prospettiva elettorale: ancora una volta il destino del nostro paese dipende dalla risposta alla domanda: “il Presidente del Consiglio farà ciò che è giusto, o ciò che è conveniente?”.
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