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L’arte di guardare fuori dalla finestra, la lealtà di raccontare ciò che si vede | Erri De Luca ospite in Bocconi

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Foto_Erri_De_Lucadi Marta Fracas e Marta Mancini

“Sono qui in funzione di intrattenitore. Non sono un maestro, semmai mi faranno bidello onorario.”
Colpisce subito la modestia. Traspare dallo sguardo limpido, dalla voce profonda, dalla cadenza che ha ancora orgogliosamente sapore di Napoli. Una vita spesa con l’obiettivo di restituire alla parola quella responsabilità originaria che le appartiene, ma che il mondo le ha strappato: basta questo a descrivere Erri De Luca. Ama parlare di fatti reali, senza alcuna censura: la lingua originaria delle Sacre Scritture, la guerra a Sarajevo, l’attualità e la politica del proprio Paese. Ama “stare davanti alla finestra e guardare fuori, poi raccontare quello che succede”. Ama stare, come tutti i poeti.
Un evento denso di significato quello organizzato martedì 21 febbraio dall’Associazione Bocconi d’Inchiostro, che ha condotto un’appassionante intervista ad uno degli scrittori italiani dalla penna più suggestiva degli ultimi vent’anni, che si è raccontato agli studenti con l’umiltà e la disponibilità che lo caratterizzano.

Lo scrittore. “Il mistero della letteratura è questo: uno scrive una storia privata, personale, e questa rimbomba nella vita degli altri.” Non si diventa scrittori per scelta, ma per necessità: “Ho iniziato a scrivere per tenermi compagnia. A scuola andavo malissimo perché finivo costantemente fuori tema. Ora riesco ad andare fuori tema anche nelle storie mie: ecco che mentre la scrivo la storia si muove, invece che starsene quieta. Se ne scappa da tutte le parti, io ne trattengo solamente un pezzetto.” Lo dice senza mezzi termini: la scrittura non è un’attività intellettuale. È un apporto concreto all’attualità, allo stesso modo in cui lo è un lavoro manuale come quello dell’operaio, che lui ha svolto per tanti anni. Gli scrittori hanno in mano la parola, “lo strumento più efficace della vita pratica, che comporta delle conseguenze”, ci spiega Erri, aggiungendo che si dissocia dagli effetti provocati dalle sue parole: “Non c’è nessun rapporto tra quello che uno scrive e quello che uno legge: io scrivo per me stesso”. Uno stile particolare il suo: la narrazione è spezzata in frasi brevi, suddivisa in frequenti paragrafi; il ritmo incalzante descrive storie lente. “Le mie storie sono tutte orali: perciò le mie frasi non sono più lunghe del fiato che serve per pronunciarle. Le pause sono per il narratore, per dargli il tempo di rifocillarsi. I paragrafi corrispondono al tempo di interruzione nel fluire del racconto orale. Non uso mai la terza persona, non aggiungo distanza: io racconto dall’interno.” E poi, di nuovo, la sincerità tagliente: “Non sono un messaggero, non nascondo significati dietro le storie. Se vi devo mandare un messaggio, ve lo scrivo”.

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Il rapporto con l’attualità. “Sono un osservatore partecipe. Fuori dalla scrittura, sono cittadino, e mi impiccio negli affari del mio Paese. Certi fatti mi agitano, l’attualità bussa alla mia porta con prepotenza e mi obbliga a rispondere.” E come può rispondere uno scrittore, se non scrivendo? “Credo che uno scrittore debba essere portavoce della parola. Apri la tua bocca per il muto, è scritto nell’Antico Testamento. Io mi sento strumentalizzato: sono un altoparlante che dà voce a chi di voce non ne ha, e come un’antenna rilancio in alto il segnale. In una società democratica, la parola è lo strumento più efficace; però non è garantita, non va data per scontata: va presa, tenuta e mantenuta.”

L’amicizia con Izet Sarajlic. “Durante l’Assedio di Sarajevo ho conosciuto Izet Sarajlic, grande poeta testimone della guerra di Bosnia. Lui è sempre rimasto in città in quel periodo e mi ha insegnato la lealtà nei confronti della propria comunità. Grazie al suo esempio ho imparato qual è il compito dell’intellettuale: quello di stare, e di condividere la malora del proprio popolo. Mi chiamava il fratello Grimm, perché diceva che con tutti i fatti che sono accaduti nella nostra epoca, noi non potevamo che scrivere fiabe.
Malgrado l’oppressione della guerra, di notte a Sarajevo le persone andavano a sentire voci di poeti. Avevano evidentemente bisogno di sentire parole di contrappeso, che sospendessero la loro malora per la durata di qualche ora. Come diceva Sarajlic: “Quando il buio cala sull’umanità, i poeti sono chiamati a fare il turno di notte”. Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del nostro mondo? Noi, i poeti.”

Lo studio delle Sacre Scritture. Colpisce la sua attenzione verso l’Antico Testamento, richiamato in quasi ogni sua opera. E nemmeno in questo caso Erri si stacca dalla concretezza, da una lealtà ultima verso “quello che c’è fuori”: “Non è un libro che si può sfogliare per l’attualità. (…) È un libro remoto, antico, in cui si è rivelata una divinità che aveva deciso di mettersi a parlare”. È nelle Sacre Scritture che riscopre quell’attenzione verso la parola che lo caratterizza, e che sta al centro della sua poetica. Nel testo sacro, la parola ha un’immensa responsabilità: concretizza la divinità; è anzi lo strumento prediletto per la creazione. È “carica”. Da qui nasce la passione per lo studio dell’ebraico, imparato da autodidatta: “Ero curioso di conoscere la lingua che l’aveva verbalizzata per la prima volta, cioè l’ebraico antico. Quindi volevo sapere com’era fatta quella lingua: questo è stato il mio inizio, poi ci sono rimasto dentro. È diventata una mia abitudine fisica mattutina: io mi risveglio leggendo quelle pagine, quelle righe che hanno la particolarità di andare all’opposto del nostro senso di lettura. Quindi fanno attrito con me stesso, per me sono un deserto: io faccio una passeggiata nel deserto. Mi procuro questa passeggiata nel deserto la mattina, poi chiudo il libro e rientro nel mio tempo.”

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La sua generazione e la nostra. Dal suo libro “Il contrario di uno”: La mia generazione è stata come un’onda più serrata e forte nel sistema ondoso, che non si spiega con quella di prima né con quella di dopo”. “L’immagine che ho dato della mia generazione era di natura quantitativa. Noi eravamo in tanti, figli del dopoguerra, della volontà di un popolo di rinnovare le proprie fibre. Inoltre eravamo la prima generazione acculturata. Abbiamo visto che nel resto del mondo c’era una generazione che scalpitava e si muoveva anch’essa sulla stessa onda, in concomitanza con un altro gruppo di massa, quello operaio.
La vostra generazione invece ha la particolarità che siete in pochi. L’età media di questo Paese si è alzata enormemente. I giovani sentono di essere una variante degli adulti. La vostra è una condizione speciale, di debolezza numerica a cui io imputo tutte le incertezze, che chiamo mancanza di spirito di contraddizione.”

Non si rimane indifferenti davanti ad un personaggio come Erri De Luca. Possibile non condividere il suo punto di vista, impossibile evitare di prenderlo in considerazione.
E viene voglia di diventare scrittori, come lui. Ci ha lasciato con un consiglio appassionato, proprio riguardo la sua professione: “Fate uno sforzo di ammirazione: trovate uno scrittore straniero che amate e traducetelo, così diventerete davvero padroni della vostra lingua. Io ho letto un mucchio di libri, ho ascoltato le storie raccontate dai vecchi, ho guardato fuori dalla finestra ed ho cominciato a scrivere”.

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