di Marta Mancini
Sorpassi il frontespizio, apri alla prima pagina, e già promette bene: “Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita”.
Da questa citazione di Goffredo Parise, che fa da introduzione a tutto il libro, se ne possono già cogliere gli elementi distintivi: carattere ironico, senso dell’umorismo che ricorda quello un po’ witty di Oscar Wilde, nessuna paura di essere politicamente scorretto. E soprattutto, la leggerezza: quella “pensosa”, direbbe Calvino, perché capace di arrivare alla radice profonda delle cose più semplici, che consideriamo piccole, che diamo per scontate, perché fanno parte del quotidiano. Ma proprio per questo, perché ce le troviamo davanti tutti i giorni, è doveroso dar loro la giusta importanza.
Momenti di trascurabile felicità (Einaudi, 2010) è questo: l’elogio delle piccole cose che, in qualche modo, ci fanno vedere spiragli di felicità durante le nostre giornate. Qualche esempio?
“Gli sms dopo le undici di sera che dicono: ‘dove sei?’, che significano molto più di quello che dicono.”
“Quando mia moglie si mette una mia maglietta”.
“Togliere il cetriolo dal cheeseburger”.
“La prima e l’ultima pagina di un libro”.
“Il primo film al ritorno dalle vacanze, gli ultimi giorni di agosto, quando si sentono in modo distinto tutti gli odori del cinema: delle poltrone, della pellicola, dei popcorn, dei bagni”.
Sono questi i dettagli della vita che Francesco Piccolo ha collezionato e pubblicato.
Classe 1964, nativo di Caserta, nel 2014 vince il Premio Strega con Il desiderio di essere come tutti, pubblicato l’anno precedente da Einaudi. Il suo ultimo romanzo, L’animale che mi porto dentro, è ancora fresco di stampa: edito sempre da Einaudi nel 2018. Piccolo, però, non è solo scrittore: ha sceneggiato alcuni dei film più conosciuti degli ultimi anni, tra cui Il caimano e Habemus Papam, firmati da Nanni Moretti, La prima cosa bella e Il capitale umano di Paolo Virzì.
Ma andiamo con ordine.
Proprio stamattina ho terminato la lettura di Momenti di trascurabile felicità. Lei ha trovato l’ispirazione nelle piccole cose del quotidiano: com’è nata l’idea del libro?
L’idea del libro è nata come idea che non era un libro (ride, ndr). Era solo un file, dove mettevo delle cose che arrivavano dalla vita quotidiana, perché mi sembravano interessanti. È sempre stato un mio istinto quello di guardare al mondo cercando di coglierne i dettagli, ho sempre preso appunti su tutto. Però ad un certo punto mi sono accorto che quegli appunti si assomigliavano; erano tutte cose della vita quotidiana, messe lì in quel file, come se fosse un serbatoio. Rileggendole mi sono reso conto che potevano essere un libro, quindi ho iniziato a metterlo a posto.
Perché è piaciuto ai lettori, secondo lei?
Mi sembra che sia un modo di raccontare un po’ libero e soprattutto molto reale. Infatti, le persone si riconoscono, e dicono: è successo anche a me.
Mentre riordinava gli appunti per farne un libro, si aspettava che avrebbe avuto questo effetto sul pubblico: che ci si riconoscesse così?
No, anzi: quando ho dato il libro alla casa editrice ero un po’ scettico, perché era un libro anomalo; mai avrei pensato che avrebbe avuto questo successo e questa adesione da parte del pubblico.
…che poi, nella vita, lei è due cose: scrittore e sceneggiatore. Ha detto spesso che la differenza principale tra questi due mestieri sta nella concretezza: lo scrittore può permettersi di sognare più dello sceneggiatore, che invece deve fare i conti con la produzione del film.
È vero, è così. Ma questa cosa non è un limite, anzi, è stimolante il fatto di avere limiti entro i quali muoversi: apre all’idea.
Come si concilia il mestiere dello scrittore con quello dello sceneggiatore?
Uno è solitario, l’altro in compagnia: questo non solo li rende compatibili, ma si influenzano e convivono bene insieme. Uno scrittore passa le giornate da solo davanti alla scrivania, quindi l’idea di andare a lavorare insieme ad altri è molto eccitante. Allo stesso modo, lavorare tanto tempo insieme ad altri fa venire voglia di starsene da soli, per tutta la giornata, davanti allo schermo del computer. Quindi queste due cose in qualche modo si fanno compagnia. E a me piace molto passare dall’uno all’altro.
Il tempo è tiranno: scoccano i cinque minuti, e l’intervista deve finire. Chiudo il bloc notes, un po’ rattristata, e Piccolo sorride: “Quanta rigidità, peccato!”. La sua cadenza meridionale, il tono di voce, gli occhi scuri e profondi conferiscono un tono rassicurante alla sua esclamazione.
Peccato, è vero. Ma magari anche un’intervista incompiuta è un momento di trascurabile felicità. O forse di infelicità?
Non saprei: per ora, me lo appunto.
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