di Marco Visentin
Quando Grover Cleveland, presidente americano, dovette operarsi per un tumore, lo fece in gran segreto, in barca con un amico. In occasione di un infarto di Eisenhower, il suo staff fu molto evasivo, così come evasivi furono i medici di Kennedy riguardo alla malattia di Addison da cui era affetto. Addirittura, quando Franklin D. Roosevelt si candidò alla presidenza nel 1932, i giornali furono piuttosto silenti sulla sua condizione di paraplegico.
Un presidente americano dev’essere forte, padre della nazione e comandante in capo, è in sostanza il ragionamento: di certo non può soffrire di gravi problemi di salute – lo sa bene Hillary Clinton, già candidata presidente nel 2016 e intorno al cui stato di salute scoppiò un caso. Il mito ha origini lontane: nel 1841, William Henry Harrison morì per una polmonite 31 giorni dopo l’inizio del suo mandato; nonostante la giornata fredda e umida, aveva tenuto un lunghissimo discorso di insediamento, senza indossare cappotto né cappello e dopo aver raggiunto a cavallo il sito della cerimonia. A Theodore Roosevelt spararono, ma egli, scampato per miracolo alla morte, volle comunque tenere il comizio elettorale che lo attendeva – con un proiettile tra le costole.
E da noi? Altri tempi, altro Paese. La popolazione americana era giovane, più di ora e ancor più degli italiani di oggi. Vuoi per questo, vuoi per il retaggio culturale, proprio noi siamo l’antitesi involontaria di quell’ossessione per i presidenti “perfetti”.
Siamo sempre più vecchi; e, se non bastasse, gli ultimi venticinque anni ci hanno visti divenire via via più pessimisti – eppure sempre pronti a farci illudere, una contraddizione squisitamente nostrana –, accasciati: stanchi, quasi specchio dell’economia stagnante che ci ha accompagnati.
Peraltro, anche noi abbiamo avuto una classe politica eccellente, se non per la prestanza fisica, per la cultura e l’eloquio. Un solo esempio: ricordiamo Giovanni Spadolini, già capo del governo e presidente del Senato, come presidente della nostra università (per 18 anni) e direttore della Nuova Antologia, nota pubblicazione letteraria. E però, a un certo punto questa classe dirigente colta è stata spazzata via. Di noi, che ne è stato?
Via i politici aristocratici, scelti dalle masse perché interpreti della loro parte migliore – quella colta, studiosa; purtroppo non sempre onesti o avveduti nel lungo periodo, difetti che hanno lasciato in eredità ai loro successori. Non sto accusando la politica di chissà quale misfatto – a parte quelli noti: aver trascurato l’istruzione (spesso), esaurire la propria azione nel brevissimo periodo. Due fattori che, sommati al nuovo ruolo dei media e a un certo sentimento di frustrazione, hanno portato gli elettori a non cercare più la parte migliore di sé, ma un’indulgente rappresentazione dei propri vizi.
Gli italiani leggono poco, ma mangiano molta Nutella; in effetti, amano proprio mangiare, così come adorano i gattini; (sempre meno) hanno dei figli, a cui (sempre più) non sanno dire di no – ricordate la storia della moto d’acqua?; sono stufi di sentire gente che parla e non fa nulla – “eh, ci vorrebbe qualcuno che davvero facesse qualcosa, qualcuno con i pieni poteri”; e temono, magari pure odiano, chi è diverso da loro. O anche, sono arrabbiati: con le élite che ingrassano mentre loro stanno male, con il progresso tecnologico troppo veloce per il loro impiego; e cercano chi si faccia portavoce della loro rabbia, e apra quella cricca di corrotti come una scatoletta di tonno.
Colpa loro? In democrazia, parlare di “colpe degli elettori” è sempre affare spinoso. Sia come sia, non credo che gli italiani siano peggiori ora di trent’anni fa, o degli americani dei tempi andati. Sono delusi, arrabbiati, disorientati: bisogni, rispondere ai quali è compito eminentemente politico.
A partire dalla metà degli anni Settanta siamo sotto il tiro incrociato (peraltro, non vittime innocenti) di un duplice attacco, i cui due fronti si alimentano vicendevolmente: l’esplosione del debito pubblico – e, da un certo periodo in poi, una cronica debolezza dell’economia nazionale – e la crisi demografica. Le nascite si sono ridotte e la popolazione è invecchiata piuttosto rapidamente, allo stesso modo e nello stesso periodo in cui, per varie ragioni, è cresciuto il debito pubblico.
Con il risultato che gli italiani di oggi o sono anziani; o, lavoratori, dovranno sostenere il costo dei concittadini anziani in una proporzione sempre meno favorevole; o, i sempre meno numerosi giovani, hanno dinanzi prospettive fosche: la popolazione attiva si ridurrà progressivamente, mentre i pensionati continueranno a crescere, in numero e ancor più rapidamente in proporzione, almeno per altri 40 anni.
Quale futuro ci attende? Come l’aumento della speranza di vita che l’Italia ha visto negli ultimi decenni influirà sulle nostre condizioni di vita, in combinato disposto con il calo delle nascite? Questioni complesse, a cui daremo risposta (proveremo!) nel prossimo numero cartaceo, in uscita nelle prossime settimane.
Editorial Director from January 2020 to January 2021, now Deputy Director. Interested in European integration and public policy.