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E Brexit sia: i risultati delle elezioni nel Regno Unito

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Il Partito Conservatore del primo ministro britannico Boris Johnson ha vinto le elezioni di giovedì 12, segnando la fine di un turbolento triennio di maggioranze instabili e spianando la strada al compimento della Brexit. Una landslide victory di tale portata da segnare una profonda discontinuità nella storia politica britannica, e da ridisegnare la geografia del voto in modo notevole.

PartitoSeggi
Conservative365
Labour203
SNP48
Lib Dem11
DUP8
Sinn Fein7
Plaid Cymru4
Green1
Altri3

Con l’asticella della maggioranza fissata a 326 seggi, i Tory ne hanno ottenuti 365 – migliore risultato dai tempi di Margaret Thatcher nel 1987 – e il Labour 203 – mai così pochi dal 1935. Johnson ha vinto su tutta la linea: prima, intuendo che nuove elezioni lo avrebbero liberato dall’impasse in cui la Brexit si era arenata nella precedente legislatura; poi, giocando l’intera campagna elettorale sul tema dell’uscita dall’Unione Europea.

Il Labour al riguardo è sempre stato in difficoltà. Sembrava, negli ultimi giorni, che spostando l’attenzione sui temi sociali – il sistema sanitario, l’edilizia popolare, la critica dell’austerity… – il partito di Jeremy Corbyn fosse riuscito a recuperare parte del notevole svantaggio che i sondaggi gli accreditavano nei confronti dei Tory, magari fino al punto di impedire una maggioranza conservatrice; manovra fallita, a giudicare dai risultati del voto.

Oltre ai temi del dibattito elettorale, non ha certo contribuito la personale impopolarità di Corbyn, così come hanno pesato le polemiche sull’antisemitismo diffuso nel partito e di cui è accusato lo stesso leader. Un’altra critica rivolta al Labour guarda più indietro nel tempo, accusando un eccessivo spostamento a sinistra: una radicalizzazione che già aveva portato alla sconfitta di Ed Miliband nel 2015 e che Corbyn ha accresciuto, portando il proprio partito su posizioni sempre più “invotabili”.

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Al di là della tattica, tuttavia, queste elezioni danno un segnale di cambiamento radicale: il Regno Unito ha visto cadere sotto l’assalto dei conservatori il “muro rosso”, la cintura di distretti tradizionalmente laburisti nell’area industriale del nord dell’Inghilterra – una dinamica per certi versi simile all’avanzata leghista nelle ex “regioni rosse” italiane. Quegli stessi distretti nel 2016 avevano votato in massa per la Brexit: una prima spaccatura con il loro partito di riferimento che ora, dopo tre anni di interregno, si è approfondita a vantaggio dei Tory.

Risultati elettorali per distretto
Risultati elettorali per distretto © Wikipedia

Johnson dovrà tenere conto anche di questi suoi nuovi sostenitori nel definire le politiche da adottare per il dopo-Brexit. Quelle aree (post-)industriali non vedrebbero con favore le politiche tradizionalmente conservatrici di libero mercato e deregulation, sperando piuttosto in un rilancio della manifattura britannica a suon di protezionismo e interventismo statale.

Altra linea di spaccatura è quella geografica: lo Scottish National Party ha vinto 48 dei 59 seggi scozzesi con la sua linea nazional-indipendentista e di sinistra, esattamente agli antipodi della base conservatrice, per la grande maggioranza inglese. Contraria alla Brexit già nel 2016, la Scozia potrebbe premere, sull’onda dell’ottimo risultato del SNP, per un nuovo referendum sull’indipendenza – a cui Johnson ovviamente si oppone. E in Irlanda del Nord, per la prima volta i nazionalisti irlandesi hanno superato gli unionisti.

Donald Sassoon, storico britannico, intervistato dal Corriere ha detto di vedere in Johnson i “sintomi morbosi” già descritti da Gramsci come tipici delle fasi di transizione. Sicuramente, il Regno Unito sta affrontando cambiamenti radicali, che ne riconfigureranno l’assetto nel mondo (grazie a Brexit) e in politica interna: se poi l’attuale premier sia lì per restare o sia solo un sintomo del più grande scorrere della storia, resta un’incognita. Certo è che il vincitore ha le carte in regola per agire indisturbato per i prossimi cinque anni, imprevisti permettendo.

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di Marco Visentin

Author profile

Editorial Director from January 2020 to January 2021, now Deputy Director. Interested in European integration and public policy.

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