Il Libano
Il Libano è una repubblica parlamentare dal 1943, anno in cui ha unilateralmente posto fine al mandato francese. Il paese dei cedri, abbracciato dalle acque del Mediterraneo e incorniciato dai confini con Siria e Israele si estende per circa 10000 kmq, conta circa 4,5 milioni di abitanti ed è il paese più piccolo del Vicino Oriente.
Secondo le Nazioni Unite, l’1% della popolazione detiene il 25% della ricchezza del paese e il 20% dei depositi bancari è concentrato in circa 1600 conti correnti, lo 0,1% del totale.
Il debito pubblico è tra i più alti al mondo, e negli ultimi trent’anni ha registrato una crescita esplosiva (2120% dal 1990), fino a raggiungere il 150% del PIL.
Nel 2017, le principali banche del paese, la Audi Bank e la Blom Bank -rispettivamente con 560 e 730 milioni di dollari -, hanno fatto registrare profitti record e in assoluto il sistema bancario libanese genera circa il 4,5% del PIL (per fare un confronto diretto in Germania la proporzione è dello 0,2%, negli Stati Uniti dello 0,9%).
Il tasso di cambio ufficiale è rimasto per vent’anni fittiziamente ancorato a 1507 lire libanesi per dollaro, ma nel mercato parallelo oggi un dollaro vale tra i 1900 e i 2200, con un limite di prelievo mensile di 4000 dollari.
Quasi la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà relativa, il salario minimo corrisponde a circa 300 dollari al mese e si stima che un milione e mezzo di abitanti viva con meno di 4 dollari al giorno. Parallelamente i salari istituzionali variano tra i 7000 e i 12000 dollari.
Nella classifica per la libertà di stampa è al centesimo posto su 180 e secondo Transparency International è tra i 50 paesi più corrotti al mondo.
La rete elettrica nazionale, nonostante divori più di 2 miliardi e mezzo l’anno, copre solo il 60% del fabbisogno nazionale. A Beirut, i blackout sono giornalieri e variano dalle 3 alle 6 ore, fuori dalla capitale si arriva anche a 12 ore. Analogamente anche l’acqua è un problema: l’approvvigionamento idrico è parzialmente garantito da navi cisterna turche, ma in alcune aree costiere ci si lava con l’acqua salata.
Persiste anche l’emergenza rifiuti, la stessa che nel 2015 aveva dato vita al movimento You Stink, dopo la chiusura improvvisa di tre discariche. In ospedale le lenzuola si portano da casa, così come la carta igienica, se si ha la fortuna di andare a scuola.
Clientelismo e rivolta
La disoccupazione giovanile è attorno al 40% e chi cerca lavoro deve scendere a patti con lo zain, retaggio antico che fino ad un secolo fa corrispondeva al feudatario, oggi ai capi di partito confessionali che durante la guerra civile del ‘75 erano a capo delle milizie. In Libano sono presenti 18 confessioni religiose e non è possibile ottenere un lavoro senza il wasta, ossia una raccomandazione. Bisogna quindi contattare il parlamentare cristiano, sciita, sunnita o druso a seconda dell’appartenenza comunitaria del richiedente; il prezzo per il disturbo è il voto.
È probabilmente questo il motivo principale della thawra, parola che deriva dal verbo thaara-yathuuru che significa istigare, e da cui deriva anche l’etimologia del sostantivo thawr cioè toro. In passato gli arabi usavano questa parola col significato di furore, collera, indignazione e solo in tempi moderni ha assunto quello specifico di rivoluzione.
La piazza vuole il superamento del consociativismo confessionale, stipulato nel 1989 dagli accordi di Taif, che favorisce le élite, nukhab, e danneggia il cittadino comune, ahali. Il paese versa in una grave crisi, solo pochi giorni prima dell’inizio delle manifestazioni il governo si è dimostrato incapace di far fronte agli incendi che hanno attanagliato e distrutto le foreste, perché i veicoli antincendio Sikorsky erano fuori uso per mancata manutenzione.
L’origine delle rivolte
In Libano è sorto il cinquantesimo giorno di thawra; quello che all’inizio era sembrato uno sparuto gruppo di manifestanti, troppo giovani e disorganizzati per essere presi sul serio, si è rapidamente trasformato in una massiccia protesta. In più di due milioni si sono dati appuntamento nelle principali città, a Beirut e a Tripoli, ma la manifestazione ha rapidamente dilagato sino a città come Sidone, Batroun e Nabatiyeh…
La miccia, datata 17 ottobre, è stata accesa dall’annuncio del Ministro delle Telecomunicazioni Mohamed Choucair della previsione di una nuova commissione di circa 20 centesimi sulle comunicazioni online, la fantomatica tassa su WhatsApp.
Un adagio arabo recita “sotto il sole del deserto il cammelliere fa i suoi progetti, ma li fa anche il cammello”. Il sistema messo sotto pressione ha da subito mostrato le sue crepe, infatti già il 20 Ottobre il pm Ghada Aoun ha accusato l’ex primo ministro Najib Mikati (che vanta un patrimonio personale stimato in 2 miliardi di dollari) e l’Audi Bank, la principale banca del paese, di aver percepito guadagni illeciti. L’ex premier è accusato in particolare di aver ricevuto prestiti immobiliari agevolati destinati alle famiglie a basso reddito.
Ma è tutto l’establishment ad essere sotto accusa, in strada non sventola nessuna bandiera di partito, solo bandiere nazionali e ancora oggi la protesta è apartitica, nessuna leadership ombra si è palesata.
Per strada, le persone gridano unite al shab yurid isqat al nizam, traducibile come il popolo vuole la caduta del sistema, ma anche Killon yanii Killon, ovvero tutti significa tutti.
Le reazioni della politica
Il premier Said Hariri, esponente dell’area sunnita, ma anche uno degli uomini più ricchi del paese con una fortuna personale stimata in 1,4 miliardi di dollari, prima di dimettersi il 29 Ottobre ha benedetto la thawra, reso omaggio ai manifestanti che hanno ridato dignità al Libano e promesso che il diritto di protestare non sarebbe stato ostacolato. Hariri si è poi ritirato nella sua residenza a Downtown, il più esclusivo quartiere di Beirut.
L’ex premier è stata l’unica grande personalità sunnita ad appoggiare la piazza anche nella richiesta di elezioni anticipate, ma senza l’appoggio dei suoi seguaci, i notabili appartenenti al movimento Futuroi.
Tra le altre confessioni religiose, la Chiesa Maronita (Chiesa Cattolica di rito orientale in piena comunione con la Santa Sede) guidata dal Patriarca Bishara Butros al Ray, che ha il rango di cardinale e partecipa al conclave di Roma, ha chiesto al governo di accogliere le rivendicazioni della popolazione, suggerendo un profondo rimpasto dell’esecutivo senza però l’indizione di nuove elezioni.
Tra gli sciiti, il segretario di Hezbollah (il partito di Dio direttamente finanziato dall’Iran), Hassan Nasrallah, intervenuto più volte dal suo nascondiglio segreto che lo protegge dalla condanna a morte emessa da Israele, eseguita nel caso dei suoi due predecessori, e il portavoce del parlamento Naih Berri, leader del Movimento Laico Amal, invece condividono la linea di mantenere in piedi il governo così com’è.
Scontri e blocchi stradali
La giornata più drammatica della thawra è stata sicuramente il 12 novembre, quando i moti di protesta, a seguito di una discussa intervista rilasciata dal Presidente Michele Aoun, hanno prodotto la prima vittima: Alaa Abu Fakher, 38 anni.
Un altro proverbio arabo recita “parla soltanto quando sei sicuro che quello che dirai è più bello del silenzio”. Aoun sembra invece indossare nuovamente i panni del generale della patria, accusa i manifestanti di spingere il paese verso la catastrofe e invita chi crede che nel vertice politico non vi sia nessuno che sia corrotto ad andarsene. Osservazioni forti, dato che una delle ragioni principali della protesta è proprio la prospettiva certa per migliaia di giovani libanesi di dover cercare lavoro all’ estero.
Blocchi stradali hanno paralizzato le arterie da e per la capitale; sulla strada verso i monti dello Chouf, in località Khalde, vicino ad Hasbaya (villaggio druso), un’auto del servizio di sicurezza generale è stata bloccata e accerchiata dai manifestanti. La situazione è presto degenerata, e il colonnello Nadal Daou ha sparato quattro colpi di pistola. Affermerà di aver sparato in aria solo per disperdere la folla, ma un proiettile ha colpito alla testa Alaa Abu Bakr uccidendolo sul colpo. La folla ha trasportato la salma a Riad al Sol, cuore della thawra, davanti al Gran Serraglio, simbolo di quel potere che secondo la gente l’aveva ucciso.
Il Presidente
Il Presidente, che al principio come gran parte della classe politica aveva “appoggiato” e “compreso”, almeno a parole, le ragioni della protesta, è stato sicuramente infastidito dal perdurare dei blocchi stradali e dagli scioperi che stanno letteralmente paralizzando il paese, dalle dimissioni improvvise del premier Hariri e dalla sfiducia del popolo verso la sua autorità. Killon yanii Killon, anche il mandato del Presidente deve terminare in anticipo.
Uno smacco per chi doveva rifondare lo Stato sul piano etico e morale. Aoun, alla fine del lungo esilio in Francia, nel 2016 ha sbaragliato le altre fazioni cristiane come la Falange di Gemayel e le forze Libanesi di Geagea e, dopo essersi alleato con i partiti sciiti, Hezbollah e Amal, e con il cristiano Marada, è ritornato sul trono di Baabda da dove, nel 1989, era stato cacciato dai bombardieri siriani, allora nemici giurati, oggi quasi alleati.
Quel che il Presidente non ammette è il fallimento della sua strategia per uscire dall’impasse politico. Aoun era possibilista sul conferire ad Hariri un secondo mandato, ma auspicava un governo formato da politici e da tecnici, mentre i manifestanti e lo stesso Hariri insistono per un governo “tecnocratico” indipendente da qualsivoglia ingerenza politica. Va sottolineato che il Presidente prima di dar il via alle consultazioni ufficiali si è ostinato nel condurre negoziati privati, tramite Gebran Bassil (onnipotente genero nonché ministro degli esteri e leader del partito aounista, il Movimento Patriottico Libero).
Il miliardario Safadi
Dopo il rifiuto di Hariri di guidare un governo misto, anche su proposta dell’ex premier, era stato ventilato il nome del miliardario Mohammed Safadi, 75 anni e ex ministro delle Finanze.
Safadi quindi è un componente del tradizionale sistema di potere libanese, appartiene all’area sunnita ed è originario di Tripoli, di cui è uno degli zain assieme a Najib e Taha Miqati, e all’ex ministro della Giustizia, Ashraf Rifi, che nonostante gli ingenti patrimoni personali, continuano a soprintendere alla più povera città del Libano.
A questa notizia, la protesta da Piazza dei martiri si è rapidamente estesa a Zaituna Bay (Baia dell’Ulivo). Si tratta di un’ex spiaggia libera al centro di Beirut su cui si affacciano grattacieli, alberghi, ristoranti di lusso e naturalmente lo yachting club. L’area è sotto il controllo di una società di cui Safadi è azionista al 20%, assieme alla partecipazione di Solidaire, società edilizia di Hariri. Si dice che Zaituna Bay sia frutto di corruzione: sarebbe infatti concessa in locazione dal demanio a 2500 lire libanesi al mq (un dollaro e mezzo al cambio attuale) e affittata a sua volta a 2500 dollari al mq.
Safadi è anche implicato nel caso Yamamah, grosso scandalo di tangenti scoppiato in Gran Bretagna. La multinazionale BAE, con sede a Londra, è una delle aziende militari europee maggiormente connesse con il Pentagono, ma il 20% del fatturato è legato al reame saudita. Secondo gli inquirenti, la BAE fino al 2007 avrebbe pagato tangenti e commissioni, per almeno 6 miliardi di sterline, ad alcuni membri della famiglia reale saudita per una colossale commessa militare, pari a circa 47 miliardi di sterline, relativa alla fornitura di 72 Eurofighters.
Secondo il Guardian, che cita la polizia inglese, Safadi aveva il ruolo di business manager del capo dell’aviazione militare saudita, il principe Turki bin Nasser, genero dell’allora erede al trono Sultan, tuttavia Safadi non è mai stato incriminato formalmente. Ad ogni modo, lo scaltro imprenditore tripolino ha saputo tessere una fitta rete di contatti internazionali ed è in ottimi rapporti con il Fondo Monetario Internazionale, di cui presiede la Commissione tecnica sul Medio Oriente; come primo ministro, potrebbe facilitare l’erogazione di 11 miliardi di dollari del Fondo Cedro che furono promessi l’anno scorso da un gruppo di donatori internazionali, ma mai erogati.
Safadi non ha potuto partecipare alle precedenti elezioni per ragioni di salute, ma in compenso ha avuto modo di introdurre la giovane moglie, Violette Kairallah, 38 anni, nell’agone politico, assicurandole il Ministero della Gioventù e della Promozione Economica delle Donne. Tuttavia, neanche in questa occasione per l’ex ministro si apriranno le porte della Presidenza, non per le contestazioni della folla, che senza sapere dove si trovasse precisamente ha organizzato presidi davanti a tutte le sue residenze, ma a causa del mancato appoggio politico.
Ai posteri l’ardua sentenza se sia stato il premier uscente, Saad Hariri ad usare Safadi come pedina (nel caso dovrà subire i rimproveri e i malumori del tiranno saudita protettore di entrambi), o se sia stato il frettoloso annuncio di Gebran Bassil, ansioso di ridare la guida del paese a un premier musulmano sunnita, come detta l’imperituro compromesso confessionale che i manifestanti vorrebbero cancellare, gettandolo troppo presto in pasto alla piazza.
Secondo un’indiscrezione pubblicata su l’Orient le Jour da Scarlett Addad, in realtà a far saltare la candidatura di Safadi sarebbe stato il mancato appoggio dei tre ex primi ministri sunniti, Tammam Salam, Fuad Sinora e Najib Miqati.
La situazione politica attuale
Tutto questo ha certificato il naufragio della strategia adottata dal Presidente Aoun, il quale alla sera del 4 dicembre ha annunciato che le consultazioni ufficiali sarebbero cominciate il 9 dicembre. Al momento tra le figure maggiormente favorite spicca Samir Khatib, uomo di affari di successo, mai accostato a casi di corruzione, descritto da molti come una figura neutrale e non politica.
Nel frattempo, la popolazione libanese continua a bloccare le strade paralizzando il paese. Il timore è che un governo formato secondo i principi del sistema precedente rischi di riprodurre il medesimo quadro istituzionale contrario agli interessi del Libano. I manifestanti continuano a chiedere le dimissioni in blocco dell’esecutivo con la formazione di un governo tecnocratico che attui le riforme necessarie e urgenti per il paese, elezioni anticipate con l’abbassamento dell’età degli elettori a 18 anni e una seria lotta alla corruzione. Il popolo, come Zain, protagonista del film “Cafarnao, caos e miracoli” ambientato in Libano, vuole che i grandi ascoltino quello che ha da dire, ma i grandi sembrano sordi.
di Tommaso Leante
Immagine di copertina tratta da https://lebanesebloc.com/?p=13778.
Studente di giurisprudenza, da sempre interessato a tutto quello che succede nel mondo. Qui a TiL cerco di parlarvi dell’altra faccia della medaglia.