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Yankee go home

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Lo scorso 15 agosto Kabul, la capitale dell’Afghanistan ultimo baluardo di resistenza, è caduta in mano ai Talebani, riportando le lancette dell’orologio indietro di vent’anni. La città che negli Inni di Veda nel 1500 a.C. fu descritta come un paradiso immerso nelle montagne si è tramutata in un inferno.

Kabul è nel caos, paura e confusione hanno lasciato posto al panico, si susseguono i blackout, le strade sono intasate dal traffico, gli sportelli bancari vengono presi d’assalto e i militari abbandonano le loro postazioni, spogliandosi frettolosamente delle uniformi per paura delle ritorsioni.

Migliaia di afghani e cittadini stranieri si sono riversati all’aeroporto internazionale di Kabul Hamid Karzai. Tutti i voli civili sono stati sospesi e i soldati americani, incaricati della messa in sicurezza dell’aeroporto e dell’evacuazione del personale diplomatico nonché di personaggi sgraditi alla nuova leadership, sono costretti a sparare in aria per evitare che i civili afghani occupino gli aerei. In tanti, pur di garantirsi un biglietto per la libertà, rincorrono gli aerei che decollano dalle piste. Alcuni sono disposti a pagare un prezzo ancora più alto avvinghiandosi ai carrelli dei Boeing C-17.

Il numero delle richieste d’asilo è destinato ad esplodere ed è già il tema centrale delle agende europee. Come riportato da Matteo Villa, ricercatore ISPI, dal 2008 a oggi i paesi europei hanno valutato circa 600.000 richieste di asilo, rifiutandone 290.000 e rimpatriando oltre 70.000 persone. L’Italia è quinta in Europa per numero di afghani tutelati, su 22.000 richieste la protezione è stata accordata a circa 20.000 afghani.

La fuga

La parola d’ordine è fuggire, lo ha già fatto il Presidente Ashraf Ghani che si è dimesso e ha lasciato il paese per dirigersi negli Emirati Arabi Uniti, dopo aver raggiunto un accordo con i talebani. Solo il giorno prima aveva sostenuto con veemenza che Kabul non si sarebbe mai arresa. La sua fuga ha sorpreso  persino i suoi più stretti collaboratori come il Ministro dell’Istruzione Rangina Hamidi che si è detta scioccata e incredula.

L’esecutivo del nuovo Emirato islamico, insediatosi nel giorno del 20esimo anniversario dell’attentato alle torri gemelle, è composto da 33 membri di cui 31 di etnia pashtun, naturalmente tutti uomini e quasi tutti mullah. Il Primo Ministro è Mohammad Hasan Akhund, per l’Onu nella lista nera dei terroristi internazionali. Fu uno dei più stretti collaboratori del Mullah Omar e tra i primi a militare nelle file dei talebani. È stato ridimensionato il ruolo del Mullah Abdul Ghani Baradar, tra i volti più noti della leadership politica talebana, nonché principale artefice degli accordi di Doha, nei giorni scorsi era dato per Presidente, ma sarà invece il secondo in comando assieme a Mawlaki Hanafi. Al Ministero dell’Interno c’è Serajuddin Haqqani, amico personale di Osama Bin Laden e comandante di milizie vicino all’ISIS. Sulla sua testa pende una taglia dell’FBI, appena raddoppiata a 10 milioni di dollari, anche se per trovarlo è sufficiente cercare su Google maps il Ministero dell’Interno.  A comporre il governo ci sono anche i Guantanamo Five, ex detenuti di Guantanamo, liberati nel 2014 in cambio di un soldato americano.

Una rapida riconquista

L’avanzata dei talebani è stata rapida e inesorabile, in poco più di un mese hanno riconquistato il paese da cui nel 2001 erano stati scacciati. Sconfitti ma non sottomessi si sono ritirati in Pakistan e li hanno pazientemente aspettato che gli stranieri abbandonassero il paese, gli occidentali avevano gli orologi i fondamentalisti il tempo. Domenica hanno riconquistato la capitale, occupato il Palazzo Presidenziale, ripiegato la bandiera ufficiale afghana e proclamato il ritorno dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

La svolta nella riconquista è avvenuta domenica 8 agosto con l’occupazione di Kunduz, capitale dell’omonima provincia, una delle città più popolose del paese e fondamentale a livello strategico per la sua posizione e i collegamenti con altri grandi centri. La sua sottomissione ha una forte rilevanza simbolica perché prima del 2001 era una delle città simbolo del potere talebano.

Dopo la caduta di Kunduz, nei giorni seguenti è venuto il turno di Talugan, una delle città più grandi, situata a nordovest dell’Afghanistan, poi da qui le milizie si sono dirette a Sar-e Pol, importante perché ricca di pozzi petroliferi. Successivamente a cadere sono state Herat e Kandahar le due principali città nell’ovest e nel sud del paese. Infine, negli ultimi due giorni, i talebani sono penetrati a Mazar-i-Sharif, ultima grande città del nord controllata dal governo, per poi prendere il controllo di Jalalabd dove l’esercito regolare si è arreso senza combattere. In questo modo, i combattenti talebani hanno isolato Kabul, stringendola in una morsa e impedendo qualsiasi via di fuga se non per via aerea, dunque hanno marciato in città senza sparare colpi e senza incontrare più nessuna resistenza.

Chi sono i nuovi-vecchi padroni dell’Afghanistan

I Talebani sono un gruppo radicale islamista. Nascono nel 1994, nella città di Kandahar, in Afghanistan, a opera del mullah Muhammad ‘Omar che aveva combattuto tra le file dei mujaheddin, guerriglieri di ispirazione islamica, nella guerra contro i sovietici che avevano occupato il paese dal 1978 al 1989.

Muhammad ‘Omar, nato in una tribù di etnia pashtun, aveva studiato nelle madrasse, le scuole coraniche pakistane, difatti talebani significa studenti in pashtu, la seconda lingua più parlata nel paese dopo il dari. Scacciati i sovietici, i vari gruppi mujaheddin tornarono a essere divisi e a scontrarsi per ottenere l’egemonia della Nazione. I talebani, che nel frattempo erano diventati un gruppo armato, riuscirono a sfruttare il clima di incertezza e frazionamento e rapidamente riuscirono a imporsi a Kandahar per poi estendere il proprio dominio sulla capitale Kabul.

Nelle sue aree di influenza il gruppo si era di fatto sostituito al governo, guadagnandosi la simpatia e l’appoggio della popolazione. Si narra che nel 1994, venendo a conoscenza del rapimento e dello stupro di due bambine a un posto di blocco dei signori della guerra nel villaggio di Sang Hesar, vicino a Kandahar, il leader dei talebani Muhammad ‘Omar, alla testa di trenta uomini attaccò il presidio, si impossessò di armi e munizioni e infine come monito impiccò il comandante della guarnigione a una cisterna dell’acqua.

Sono questo genere di episodi che nutrono e alimentano le illusioni e molti afghani, afflitti dai persistenti soprusi dei signori della guerra, cominciarono a chiedere la protezione di questi combattenti devoti e religiosi.

I talebani al governo

Nel 1996, i talebani compiono uno dei loro attacchi più spettacolari e brutali, penetrati a Kabul, giustiziano Mohammad Najibullah, ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, e il fratello Shahpur Ahmadzi. Poi espongono i cadaveri nei pressi del Palazzo dell’ONU.

Di lì a poco, assumeranno ufficialmente il controllo della nazione e proclameranno la nascita dell’Emiro dell’Afghanistan, ufficialmente riconosciuto solo da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

L’Emirato dominava tutto l’Afghanistan, a eccezione di piccole regioni a nord est che rimasero in mano alla cosiddetta Alleanza del Nord.

Saliti al governo, i talebani impongono la sharia nella sua forma più rigida, con punizioni ed esecuzioni pubbliche per chi violava la legge, vige l’obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba e per le donne di indossare il burqa. Le donne, in particolare, subiscono le restrizioni più dure: fu loro vietato di guidare bici, moto e auto, di utilizzare cosmetici e gioielli e di entrare in contatto con qualsiasi uomo che non fosse il marito o un parente. Tra le altre cose venne vietata la televisione, la musica e il cinema, oltre che la coltivazione del papavero da oppio, di cui l’Afghanistan era ricchissimo. Tuttavia, pecunia non olet, perciò la produzione di oppio continuò in maniera illegale e i talebani si arricchirono notevolmente taglieggiando i coltivatori.  

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Nel marzo del 2001, mostrano al mondo la loro autorità e lo derubano di uno dei suoi tesori più belli.

A colpi di dinamite abbattono e distruggono i Buddha di Bamiyan, due enormi e magnifiche statue di Buddha scolpite nella roccia della valle di Bamiyan, circa 250 chilometri da Kabul, più di 1.500 anni fa.

Ufficialmente la distruzione venne ordinata perché le statue erano raffigurazioni di idoli, quindi contrarie alla legge islamica.

Le relazioni con Al Qaida

Durante la supremazia talebana, l’Afghanistan divenne un porto sicuro per le basi dell’organizzazione terroristica al Qaida, fondata all’inizio degli anni Novanta dal saudita Osama bin Laden, figlio di un ricchissimo costruttore yemenita. Il principe del terrore era in rapporti più che amichevoli con i mujaheddin, avendoli foraggiati e sovvenzionati nella rivolta contro i sovietici.

Gli stretti rapporti dei talebani con Bin Laden furono il principale motivo dell’intervento militare americano e determinò la temporanea caduta del regime. I fondamentalisti si rifugiarono in Pakistan e la leadership fu assunta dalla Shura di Quetta, dal nome della città in cui l’organo aveva la sua base, Quetta, nella regione del Belucistan, in Pakistan. Dopo la morte del mullah Omar, probabilmente avvenuta nel 2013 ma resa nota nel 2015, il comando passa a Akhtar Mansour, ucciso da un drone americano nel 2016, e poi a Hibatullah Akhundzada, vice di Mansour e responsabile della giustizia durante il regime.

Negli anni di attesa prima della riscossa, l’organizzazione prospera e anche nelle fasi più cruente del conflitto è riuscita a rimpiazzare in maniera continua i suoi membri uccisi in battaglia. 

Mujib Mashal, corrispondente del New York Times in Afghanistan, in un’inchiesta ha svelato il meccanismo di reclutamento nella provincia di Laghman, nell’Afghanistan orientale.

Mawlawi Qais, leader locale, ha raccontato che i guerriglieri vengono reclutati nelle moschee e nelle scuole islamiche, nonché tra le file degli oltre due milioni di profughi afghani che vivono in Pakistan.

Una causa per lottare e un ideale per cui morire può essere un’attrattiva suadente per chi si sente derubato della sua patria. Il governo costruito dalla comunità internazionale è stato fin dai primordi fragile e scollato dal territorio. In molte zone dell’Afghanistan i talebani si sono insediati nei vuoti di potere, costituendo dei governi ombra: riscuotono le tasse, mandandone circa il 20 per cento alla leadership centrale in Pakistan e tenendo il resto per sostenere la guerriglia, si dedicano all’estrazione illegale delle risorse minerarie, e incrementano il traffico di oppio.  Sfruttando la corruzione e il disinteresse si appropriano dei sostanziosi aiuti economici occidentali che ufficialmente sono diretti al governo regolare, ma che di fatto vengono gestiti dai talebani. Con essi, accrescono anche la loro popolarità creando comitati per gestire servizi essenziali, come la sanità, l’istruzione e i mercati locali.

Joe Biden e il suo Vietnam

Con gli occhi di oggi, stupisce la conferenza stampa dell’8 Luglio del Presidente USA Joe Biden, che si era mostrato particolarmente ottimista sulla tenuta del governo centrale. Senza esitazioni Biden aveva sostenuto che la vittoria dei talebani non fosse inevitabile, riferendosi al fatto che l’esercito regolare afghano era composto da circa 300.000 soldati ben addestrati e equipaggiati delle migliori armi e quindi in grado di tenere testa a soli 75.000 miliziani talebani.

A una domanda che paragonava l’abbandono dell’Afghanistan alla rocambolesca fuga da Saigon alla fine della guerra in Vietnam, il Presidente aveva risposto: << Quello che non vedrete in nessun caso è la gente prelevata da un elicottero dal tetto di un’ambasciata degli Stati Uniti d’America in Afghanistan>>, ma la storia ama ripetersi. Sicuramente quella conferenza stampa agiterà per molto tempo il sonno del Presidente e sarà una delle armi più ghiotta e gettonata per i Repubblicani in vista delle primarie.

Quella combattuta in Afghanistan è stata la guerra più lunga mai sostenuta dagli americani, è costata più di 2000 miliardi di dollari e circa 2400 soldati americani non hanno più fatto ritorno a casa, mentre le controparti europee hanno registrato la perdita di 1100 militari, 53 dei quali italiani.

Appare evidente che il ritiro sia stato affrettato e per usare un eufemismo mal pianificato e in questo senso le responsabilità del Presidente Biden sono chiare e lampanti. Per un’amministrazione che ha predicato il ritorno della competenza, dell’esperienza questo rappresenta un clamoroso passo falso come pure una grande perdita di credibilità. Circa l’eventuale crollo del governo, il Segretario di Stato Tony Blinken si era spinto ad affermare: <<non credo sia qualcosa che succeda da un venerdì al lunedì>>.

Non una guerra lampo

Ad ogni modo sarebbe ingeneroso attribuire ai sei mesi di Presidenza di Joe Biden il disastro di oggi nella sua globalità. Il ritiro delle truppe è da anni il tema centrale delle campagne elettorali americane, praticamente tutta l’opinione pubblica americana è favorevole al rimpatrio dei soldati ed è uno dei pochi punti in cui Democratici e Repubblicani sono sostanzialmente d’accordo.

Il conflitto in Afghanistan è stato il dossier più scottante sulle scrivanie di quattro Presidenti. Durante l’amministrazione Obama diventa chiaro che la guerra non può essere vinta e che il nation-building è mera utopia e che tra l’altro non era mai stato un vero obiettivo, per questo la caccia a Bin Laden diventa, se possibile, ancora più serrata e feroce.

Risale a questo periodo un episodio tragicomico ma significativo. Nel 2010, l’intelligence inglese e americana è alla caccia di Akhtar Mohammad Mansour, il numero due di Al Qaeda. Droni e satelliti si rilevano inefficaci, è difficile cercare un uomo di cui non si conosce nemmeno la faccia, finché un giorno un confidente rivela di conoscere Mansour ma prima di aprire un canale di comunicazione ha bisogno di sapere le reali intenzioni degli occidentali.

Gli inglesi lo rassicurano, garantendogli che cercano solo la pace e che vogliono negoziare coi talebani intraprendendo dei colloqui di pace con Karzai, il Presidente scelto dalla Nato, ma che in Afghanistan non conosce nessuno. Inoltre, promettono che in cambio della partecipazione al negoziato Mansour riceverà 5 milioni di dollari. Dopo una settimana, effettivamente un uomo si presenta a una base militare dichiarando di essere Mansour. Gli statunitensi sono euforici, finalmente possono dare un volto ai loro incubi, gli scattano delle fotografie e le inviano a Guantanamo dove ai prigionieri viene chiesto di identificarlo.

I prigionieri, tra un pestaggio e una sessione di waterboarding, confermano. Esaltati gli inglesi cominciano gli incontri con Karzai, ma dopo poco il sedicente Mansour fugge con i soldi, si trattava solo di un commesso di un bazar di Qetta.

Ad ogni modo, nel 2011 le forze speciali USA trovano Bin Laden, lo catturano, lo uccidono e gettano il cadavere il mare.  Morto il Sultano del terrore e vendicato gli attentati, gli americani vogliono tornare a casa, perciò, cercano una riconciliazione con i talebani offrendogli una rappresentanza nel governo.

I fondamentalisti ascoltano, ma gli attentati continuano e i negoziati si arenano.

Terminata l’esperienza Obama, Trump promette di chiudere definitivamente la guerra, riapre le trattative, ma da un uomo disposto a tutto i talebani ottengono appunto tutto. A febbraio 2020, senza neanche coinvolgere il governo afghano, Trump e i talebani firmano a Doha un compromesso che è sostanzialmente una resa incondizionata degli USA che si impegnano a ritirarsi completamente entro maggio 2021.

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In conseguenza del negoziato furono anche liberati circa 5.000 prigionieri talebani, in cambio i talebani promettono di mitigare la loro offensiva e di non offrire più rifugio ai terroristi jihadisti.

Biden conferma l’accordo ma sceglie di posticipare il ritiro fissandone la fine in una data simbolica: l’11 settembre; perciò, già ad agosto la presenza dei militari americani e di conseguenza anche europei è ridotta ai minimi termini. Gli americani volevano ritirarsi ma volevano anche andarsene da vincenti o quantomeno farlo sembrare così come fatto in Vietnam.

Yankee go home

Non sono bastati vent’anni di addestramento per formare un esercito e una forza di polizia in grado di fronteggiare autonomamente la minaccia talebana. Le fragili motivazioni delle truppe afghane, pedine di un governo artificiale, si sono schiantate contro le ragioni molto più solide e feroci dei talebani. Le forze regolari si sono rapidamente sgretolate tra fughe e diserzioni e non pochi soldati, per avere salva la vita, si sono uniti ai talebani. I combattenti afghani sono deboli, male armati e scarsamente addestrati ma a pesare è stata anche l’assenza del supporto aereo americano e di militari competenti a far funzionare le sofisticate dotazioni di difesa che gli atlantisti avevano fornito all’Afghanistan.

Mike Jason, ex colonnello dell’esercito americano, in un lungo articolo sul The Atlantic sostiene che le cause della capitolazione vadano ricercate nella mancanza di una infrastruttura istituzionale.

Senza contare che le truppe afghane similmente a quelle irachene soffrono di corruzione endemica, basso morale, uso dilagante di droghe e una scarsa attitudine alla disciplina, alla manutenzione e alla logistica.

Non dubitiamo della testimonianza del Colonello, ma non possiamo assolvere da ogni responsabilità gli addestratori. Nella mente del Presidente Bush junior la missione in Afghanistan doveva sintetizzarsi in un veni vidi vici. Tuttavia, i problemi cominciaronosubito. Gli americani non conoscono né il territorio né il nemico, non parlano la lingua locale e sono a corto di interpreti. L’Isaf, una divisione interna della Nato, ribadisce che per operare in un territorio straniero completamente diverso per usi, costumi e religione è necessario studiare, conoscere la popolazione ma soprattutto capirla. I vertici statunitensi sbuffano e storpiano ISAF in I suck at fighting.

Il colonnello nel suo articolo ci parla di afghani restii alla logistica e organizzazione, ma probabilmente gli afghani hanno solo seguito l’esempio dei loro addestratori che trasportano benzina da una provincia all’altra con gli elicotteri col risultato che la benzina trasportata fosse inferiore a quella consumata per farlo. Le truppe si fanno spedire da casa pizza, gelati, acqua americana, attrezzi da palestra e hamburger Burger King, il tutto per la modica cifra di circa 12 miliardi l’anno.

Donald Rumsfeld, capo del Pentagono, è un uomo spontaneo ed estroverso ed ama comunicare attraverso i fiocchi di neve, cioè messaggini che invia alle persone più disparate. L’8 settembre 2003 in uno dei fiocchi di neve leggiamo: “I have no visibily into who the bad guys are in Afghanistan or Iraq”, ma soprattutto Rumsfeld ci regala questa perla “We are woefully deficient in human intelligence”. Un motto niente male, vero?

Nel frattempo, la popolazione locale si è abituata all’ingerenza straniera, perciò, le varie tribù tornano a scannarsi tra loro e decidono di sfruttare a loro vantaggio l’ignoranza degli atlantisti.

Escogitano un trucco: per eliminare un avversario lo accusano di essere talebano e lo denunciano agli americani che senza troppi indugi lo eliminano. Non è difficile immaginare che la famiglia del morto possa cominciare a nutrire davvero simpatie per i talebani. Intanto la CIA continua a cercare i bad guys, ma siccome nessuno sa chi siano, ne dove si trovino, ecco un’idea luminosa: bombardare i matrimoni.

I raid noti sono undici, uno dopo l’altro mietono 30, 40, 60 e 80 vittime innocenti.

Chissà quali sono i sentimenti di chi sopravvive ma ha la casa distrutta e la famiglia sterminata da chi avrebbe dovuto proteggerli.

Nel frattempo, la corruzione dilaga, gli americani inondano il paese di denaro, ma non si interessano affatto di come vengano spesi i soldi dei contribuenti americani. Nel paese la corruzione diventa un habitus, qualsiasi apparato statale, ufficio, o stazione di polizia è corrotto, e a farne le spese sono i cittadini del quinto paese più povero al mondo. Dal governo centrale dicono di addestrare le milizie, ma non è vero. Nella migliore delle ipotesi si tratta di ladri, disertori e tossici strafatti di oppio e eroina.

Le città mancano dei servizi essenziali minimi e le famiglie afghane muoiono di fame e di sete.

Per giunta, a causa di un’ordinanza americana non possono coltivare nulla che possa essere in competizione con il mercato statunitense, perciò niente frutta o ortaggi. Che cosa resta? Oppio e marijuana ovviamente.

All work and no play makes Jack a dull boy

I soldati si annoiano, passano il tempo ubriacandosi e fumando marijuana, alla sera si giocano la paga a carte. Perciò nascono aberrazioni come il Kill team. Lo compongono Calvin Gibbs e Morlock un simpaticone nato in Alaska, ex giocatore di hockey, che prima di arrivare in Afghanistan amava passare il tempo bevendo e facendo risse; infatti appena arrivato comincia a trafficare su tutto quello cui riesce a mettere le mani come oppio, hashish, codeina, Flexeril ecc cc.

Ad ogni modo le azioni del Kill Team cominciano per caso.

Un giorno durante un giro di pattuglia si imbattono in Gul Mudin, ragazzino di 15 anni che sta zappando l’orto. I soldati decidono di giocare con lui e senza armarla gli lanciano tra i piedi una bomba a mano, il ragazzino prova a scappare perciò i soldati gli sparano: il primo che lo colpisce vince. Gli spari naturalmente mettono in allarme i commilitoni e Gibbs urla alla radio di essere sotto attacco, ma quando i rinforzi arrivano trovano solo il cadavere di un bambino e un padre che farnetica di soldati assassini. Senza farsi troppe domande lo portano via e dell’uomo non sapremo più nulla. Nel frattempo Morlock e Gibbs posano affianco al cadavere, e gli amputano un mignolo come trofeo che la sera stessa si giocheranno a carte.  

Episodi di questo genere si susseguono indisturbati: il kill team compie delle vere stragi e crivella di colpi chiunque gli capiti a tiro. Naturalmente tutto è dissimulato e la raffinata intelligence americana non capisce o finge di non capire.

Un Presidente non all’altezza della situazione

Se i soldati al fronte si sono dimostrati inadeguati, anche la leadership afghana non ha brillato di lungimiranza. Durante tutto questo tempo il Presidente Ashraf Ghani non è riuscito a sviluppare un piano adeguato in grado di sopperire all’assenza delle forze Nato. In balia degli eventi, alcuni mesi fa licenziò in tronco una parte della sua struttura di comando e creò un nuovo organo: il Consiglio di stato supremo che tuttavia non è mai stato operativo. Un’altra decisione abbastanza discutile è stato provare a smantellare l’Alleanza del Nord, cioè coloro che contribuirono al rovesciamento del regime talebano, nel 2001.

Nell’ultimo anno, nell’ottica di una resistenza anti-talebana molti di questi gruppi si sono rafforzati, e ne sono nati di nuovi.

L’ Afghanistan è un mosaico multietnico, dove manca un’identità nazionale e il Presidente ha senza scrupolo fatto leva su sentimenti e rivalità etniche per marginalizzare i suoi rivali. Per esempio, oggetto di forti discriminazioni è la minoranza etnica degli hazari, perseguitata in passato dai talebani ma anche in seguito dal governo ufficiale.

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I nemici interni dei talebani

I talebani nei prossimi mesi dovranno fronteggiare dei vecchi nemici.

Uno di questi è Zulfiqar Omid, leader hazaro, che da aprile rinforza le sue milizie e che oggi comanda circa 800 uomini. Gli hazari non sono però gli unici che sopperiscono alle mancanze del governo.

Quando il ritiro delle truppe è diventato una realtà, diversi leader regionali hanno mostrato di avere uomini armati pronti alla battaglia contro i talebani. Tra loro spicca Ahmad Massoud, 32 anni, figlio di Ahmad Shah Massoud, noto e carismatico comandante militare dell’Alleanza del Nord. Infatti, prima del 2001, i talebani non riuscirono mai ad avere il controllo del paese e l’Alleanza del Nord ha sempre stoicamente resistito al regime. Fu proprio l’Alleanza, sostenuta dall’aviazione e dai reparti speciali americani, a essere determinante per la cacciata dei talebani e di Al Qaeda. Massoud, in onore della storia ha battezzato la sua milizia “Seconda resistenza”, e nella lotta dovrebbe essere affiancato da altri battaglioni composti da membri delle comunità tagike e uzbeke. Ad ogni modo nonostante si tratti di forze antagoniste ai talebani, non tutte sembrano rispettare la morale e i principi occidentali. Lo testimonia il fatto che uno dei più potenti leader uzbeki, il generale Abdul Rashid Dostum, sia accusato di crimini di guerra e di avere sodomizzato un rivale uzbeko con un fucile d’assalto.

Alleati internazionali dei talebani

Sul fronte internazionale i talebani possono sicuramente contare sui loro alleati storici vale a dire Pakistan, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

Si è parlato molto di un incontro, andato in scena a Pechino il 28 Luglio, tra il ministro degli Esteri di Pechino, Wang yi, e una delegazione talebana capeggiata dal Mullah Abdul Ghani Baradar.

Questo non significa che la Cina abbia appoggiato i talebani nella riconquista ma pragmaticamente il Partito Comunista persegue i suoi interessi e prende atto che i padroni dell’Afghanistan sono effettivamente gli stessi di vent’anni fa. Inoltre, la Cina è interessata a inglobare l’Afghanistan nella Via della Seta e vuole avere rapporti privilegiati con il rame e il petrolio afgani.

Oltre a ciò, quale occasione migliore per espellere gli USA dall’Asia Centrale?

Anche l’India, storicamente ostile ai talebani, sembra aprire al dialogo.

Il governo indiano ha sempre osteggiato il gruppo fondamentalista in quanto appoggiato e foraggiato dal loro nemico storico: il Pakistan. Eppure, Nuova Dehli è troppa lontana e debole per intervenire e manca di alleati. In questa area il suo interlocutore privilegiato era l’Iran che però ha recentemente concluso un sostanzioso accordo economico con Pechino dal valore di 400 miliardi di dollari.

Per questa ragione l’India ha dovuto rinunciare al progetto di collegare l’Afghanistan con il Chabahar, suo porto in Iran sul Mare Arabico. Battendoli sul tempo, la Cina ha sostanzialmente fatto fallire il sogno indiano di un personale corridoio di transito in Asia Centrale.

L’Iran, che prima dell’intervento USA del 2001, aveva sostenuto, assieme a Russia e India, l’Alleanza del Nord si è mostrata favorevole ai negoziati.  Per storia e tradizioni la Repubblica Islamica è fortemente legata all’Afghanistan, che per millenni è stato una delle gemme degli Imperi Persiani Archemenide e Sassanide. Senza dimenticare che sulla fascia di confine tra Afghanistan e Iran vivono milioni afghani, in particolare di etnia Hazara che sono sciiti, parlano un dialetto parsi e festeggiano il Capodanno persiano “Nawruz”. Sarà interessante osservare il comportamento iraniano verso i migranti afghani che da anni tentano di raggiungere la Turchia, usando l’Iran come paese di transito. I Turchi hanno completato la costruzione di un muro di frontiera e milioni di profughi si fermeranno in Iran aggravandone la crisi economica. Le stime ufficiali parlano di circa 750.000 persone ma potrebbero essere anche superiori ai 2 milioni e il confine è permeabile, lungo 950 km è sostanzialmente incontrollabile.

Altro argomento importante è l’approvvigionamento idrico. I fiumi dell’Hindu Kush alimentano dall’Afghanistan gli acquedotti dell’Iran centro-meridionale, ma l’acqua non basta per tutti e a Ali Khamenei non dispiacerebbe aumentare la portata idrica a danno degli afghani ancora fermi a trovare un modo per sfruttare i fiumi.

Appare evidente che scacciati gli occidentali, la Cina sarà padrona della scacchiera.

Vent’anni fa Samuel Huntingon, politologo statunitense, profeticamente predisse che la superiorità dell’Occidente sarebbe stata distrutta dall’alleanza della Cina con l’Islam.

Nel 2019, Liu Lanyu, professore di studi regionali della Tsinghua, in un articolo affermava: << se la situazione politica e di sicurezza interna in Afghanistan si stabilizzerà, la Cina potrà partecipare da un lato alla costruzione di infrastrutture e all’utilizzo di risorse minerarie, dall’altro potrà realizzare nel paese ferrovie, autostrade e gasdotti per il trasporto dell’energia nell’ambito di una nuova via della seta… l’Afghanistan dovrà diventare un luogo di approvvigionamento delle risorse minerarie necessarie allo sviluppo della Cina>>.

Un proverbio biblico recita che la giustizia fa onore a una nazione, ma è il peccato che segna il destino dei popoli. La storia dell’Afghanistan è ancora tutta da scrivere, ma la realtà degli afghani è già nota.

Sulla loro pelle da centinaia di anni si combattono guerre geopolitiche, i confini, buoni solo per le cartine geografiche, lasciano spazio a nuove aree di dominio. Per anni abbiamo ipocritamente accettato la ricerca dei terroristi come una ragione valida per bombardare e sterminare migliaia di civili indifesi. Raccontavamo di portare libertà, democrazia e femminismo, ce ne andiamo lasciando dietro di noi una scia di sangue, morte e distruzione. Leviamo pure il disturbo, lasciamo spazio a altri invasori e almeno risparmiamoci la retorica.

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Studente di giurisprudenza, da sempre interessato a tutto quello che succede nel mondo. Qui a TiL cerco di parlarvi dell’altra faccia della medaglia.

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