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Nagorno Karabakh, Putin e Erdogan architetti nel Caucaso

Armenia Azerbaijan Nagorno Karabakh
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Vittoria azera e sconfitta armena: cala per adesso il sipario sul trentennale conflitto in Nagorno Karabakh. I separatisti armeni si ritirano sulle montagne e giurano vendetta. Nel frattempo bruciano le case e spostano le tombe dei loro cari.

La soverchiante potenza militare espressa dall’Azerbaijan e gli accordi geopolitici tra Russia e Turchia hanno piegato l’onore armeno. Martedì 10 novembre, dopo sei settimane di intensi combattimenti e vani tentativi di mediazione, Azeri e Armeni hanno raggiunto l’intesa suggerita e suggellata dal Presidente russo Vladimir Putin.

Il conflitto nella regione separatista Nagorno Karabakh ha memoria antica. Etimologicamente, il termine Nagorno deriva dal russo ed è traducibile con “montagna”. Karabakh invece deriva dal turco “kara”,nero, e dal persiano “bah”, giardino. Nonostante secondo la Costituzione dell’auto proclamata Repubblica di Nagorno-Karabakh, i nomi Artsakh e Nagorno-Karabakh siano equivalenti, nella capitale Stepanakert preferiscono riferirsi alla regione con il termine Artsakh, in onore della provincia dell’antico Regno di Armenia. Il Nagorno Karabakh è al cuore del Caucaso meridionale, ponte tra Mar Caspio e Mar Nero, crocevia tra Asia Centrale, Europa, Medio Oriente e Russia. Si tratta di una zona strategica, totalmente inglobata nell’Azerbaijan, ma direttamente legata e protetta dallo Stato armeno. Fino ad ora la salvaguardia della sedicente Repubblica è stata resa possibile grazie al controllo di sette rajon (termine russo traducibile come provincia, distretto) che abbracciano il Nagorno su tutti i lati, ad eccezione del confine orientale. Queste zone furono strappate all’Azerbaijan durante gli scontri deflagrati nel ’92, a seguito della dichiarazione di autodeterminazione. Nei secoli scorsi, la regione è stata contesa dagli Imperi Zarista, Ottomano e Persiano, mentre oggi lo è dalle loro più moderne evoluzioni: Turchia, Russia e Iran.

Con l’accordo appena suggellato, le sette regioni occupate saranno restituite all’Azerbaigian. L’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati supervisionerà il rimpatrio degli sfollati. Inoltre, forze di peacekeeping russe si sono schierate lungo la linea del fronte nel Nagorno-Karabakh e nel corridoio di Lachin tra la regione e l’Armenia. La durata del loro incarico è di cinque anni, con proroga automatica di altri cinque.

In questo modo, Mosca rafforza ulteriormente la sua presenza nel Caucaso meridionale.

Vale la pena ricordare che in Armenia i russi possono contare sulle basi militari di Gyumri (al confine con la Turchia a nord est del Paese) e sulla base aerea di Erebuni (a nord est di Yerevan). In particolare a Gyumri, a dieci chilometri dal confine con la Turchia, è di stanza la 102esima Base militare dell’esercito russo che conta ufficialmente 3 mila soldati, artiglieria pesante, missili terra-aria S-100 e caccia di superiorità aerea MiG-29.

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affidato ad un post su Facebook l’annuncio dell’accordo.

Il premier, oltre al fallimento della guerra e alla rabbia del suo popolo, incassa anche la consapevolezza di non essere molto gradito dalle parti del Cremlino. Ciò può essere in parte dovuto al percorso democratico intrapreso dal Paese, in un’ottica di avvicinamento con l’Europa, ma è soprattutto per la lotta alla corruzione che ha portato in carcere anche alcuni oligarchi strettamente legati a Mosca.

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Indiscutibilmente, l’accettazione armena della resa si può leggere come una rivincita per il Presidente azero Ilham Aliyev, dopo che nel 1994 suo padre, Heydar Aliyev, era stato costretto ad accettare l’umiliante accordo che assegnava agli armeni il controllo di quel territorio semi-autonomo e costringeva 750mila azeri a lasciare l’enclave come profughi. Perciò per il leader azero l’intesa rappresenta “un punto cruciale” per archiviare definitivamente il dossier del Nagorno-Karabakh. La vittoria azera contro gli storici rivali è stata finanziata dal massiccio sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi. La spesa bellica dell’Azerbaijan, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) nel 2014 era aumentata del 2.500 % in soli 7 anni. Si tratta di dati comparabili con quelli del riarmo della Germania nazista negli anni ‘30. Tali investimenti, in un paese con tassi di povertà ancora rilevanti, doveva inevitabilmente tradursi in una vittoria militare schiacciante contro gli armeni “invasori”. Ad ogni modo rispetto a 30 anni fa, l’Azerbaigian è una nazione ricca e forte, in grado di destare un conflitto sonnecchiante, potendo contare peraltro sull’appoggio turco. Ankara, per giustificare il suo interventismo, rivendica una continuità culturale con Baku, e, se la cultura non basta, c’è anche il fatto che l’Azerbaijan è un ottimo acquirente di armamenti e un moltiplicatore di influenza. In ogni caso, gli azeri non solo sono centrali per le partnership regionali nel Caucaso, ma sono anche fondamentali partner internazionali. I loro rifornimenti energetici sono imprescindibili per numerosi Paesi Europei. Ad esempio, nel 2019 il petrolio dell’Azerbaijan ha rappresentato il 92% del commercio totale dell’Italia con i paesi del Caucaso. Al 2020, la dimensione economica della partnership si avvicina ai 6 miliardi di euro, ovvero il 18 % del commercio estero azerbaigiano.

Dopo l’accordo,  migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Erevan per protestare contro quella che Pashinyan ha definito una decisione “incredibilmente dolorosa per me e per il nostro popolo”, ma frutto di “un’attenta analisi militare”.  Anche se con sentimenti opposti, lo stesso è accaduto a Baku, quando Aliyev ha annunciato la conquista di Shusha, “la Gerusalemme del Karabakh inferiore”. Mentre gli azeri festeggiavano la vittoria e celebravano il governo, i manifestanti armeni mostravano tutto il loro disappunto assaltando il Parlamento arrivando addirittura a malmenare lo speaker della Camera Ararat Myrzoyan, tutt’ora in prognosi riservata.

Con la fine delle ostilità, si prospetta il remake a senso inverso dell’esodo degli anni ‘90, con stavolta l’Armenia a soffrire l’ingresso di profughi. Ciò esacerberà ulteriormente il contesto socio-culturale e fornirà supporto alle forze ribelli dell’Artsakh, che, dalle montagne cui sono stati costretti a rifugiarsi, hanno già giurato vendetta. Naturalmente, molto dipenderà anche dalle attività di peacekeeping che turchi e russi condurranno e dalla loro capacità di tenere ferme le armi.

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Citata precedentemente, la Turchia è stata un alleato fondamentale per Baku. Il Presidente turco Erdogan ha garantito un pacchetto già sperimentato con successo negli ultimi anni: droni e mercenari siriani pescati tra i gruppi che un tempo combattevano, da ribelli, contro il Presidente siriano Bashar al-Assad. Tali pedine, ormai completamente assoggettate alla potenza turca, sono state trasportate dalla Turchia alle retrovie del fronte prima dell’inizio dell’offensiva azera.

Per vincere la guerra le forze militari azere si sono avvalse dei droni turchi Bayraktar, che hanno portato in dote anche consiglieri militari e tecnici turchi per un loro utilizzo più efficace. Fonti russe rivelano che alla fine di settembre lo stesso ministro della Difesa turca, l’ex generale Hulusi Akar, sia andato di persona in Azerbaigian per guidare l’inizio dell’assalto. Akar è anche l’uomo che ha diretto tutte le manovre nella Siria del Nord. Così come in Siria e in Libia, i mercenari a terra fungono da fanteria mentre i droni in aria distruggono i mezzi blindati. Come si suol dire: “i fanti occupano, l’artiglieria conquista”.

I droni sono stati uno dei fondamentali game changer di questo conflitto. Il confine del Nagorno è caratterizzato da trincee simili a quelle sul Carso durante la Prima guerra mondiale. Una cornice di reticolati, cavalli di frisia e sacchetti di sabbia. Armenia e Azerbaijan erano rimasti al concetto di scontro sulle piane tipico della Guerra fredda, avvalendosi soprattutto di carri armati e mezzi corazzati sovietici T-72 e T-90. È il terreno di caccia ideale per i Bayraktar: agili, difficilmente individuabili e capaci di sganciare bombe intelligenti o missili di tipo hellfire.

Degli osservatori indipendenti (l’Azerbaijan non ha concesso a nessuno di coprire mediaticamente il conflitto, se non all’agenzia turca Anadolu), hanno stimato sulla base dei filmati, che al 20 ottobre i droni siano stati in grado di distruggere 50 carri armati, 23 mezzi blindati, 29 pezzi di artiglieria, 41 lanciarazzi, 13 sistemi missilistici antiaereo, 6 radar e 80 camion. Sulle colline spoglie del Nagorno, i Bayraktar hanno giocato al tiro al bersaglio, sbaragliando le difese armene. Una superiorità schiacciante, testimoniata dal fatto che in tre mesi di conflitto, le retroguardie separatiste siano riuscite ad abbatterne solo uno.

Poco precedentemente alla firma della resa, le forze armene hanno bombardato città azere come Ganja (trecentomila abitanti, la seconda città dell’Azerbaigian per popolazione) per cercare di bloccare l’avanzata azera, cercando di provocare Baku e costringerli a fare altrettanto e quindi attaccare direttamente l’Armenia. Tale azione avrebbe costretto la Russia a intervenire, sulla base del Trattato di sicurezza collettivo (Csto), ossia l’accordo difensivo che lega la Russia all’Armenia (insieme a Bielorussia, Kirghizistan, Tagikistan, e Kazakistan).

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È probabile che Russia e Turchia avessero già da tempo un accordo su come dovesse finire la guerra. Putin e Erdogan non sono alleati né si comportano come tali, ma hanno messo a punto un cartello politico-militare per spartirsi vaste aree del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Caucaso. Così, nel maggio di quest’anno, è stata decisa la fine della guerra civile in Libia, dopo più di un anno di infruttuosi negoziati diretti dall’Europa. La collaborazione ha dato reciproche soddisfazioni anche in Siria dell’Ovest, cioè nel conflitto fra il rais siriano Bashar el Assad e i gruppi armati di Idlib e in Siria dell’Est dove si oppongono i turchi e i curdi. È paradossale pensare che in Siria inizialmente Russia e Turchia fossero su fronti opposti, mentre adesso contingenti misti di soldati russi e turchi pattugliano le zone strategiche e le vie di accesso al paese.

Parafrasando l’Alto Cancelliere Adam Sutler di V per vendetta, “la morale della favola, signore e signori, è: i buoni vincono, i cattivi perdono e, come sempre, i dittatori dominano!”

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Studente di giurisprudenza, da sempre interessato a tutto quello che succede nel mondo. Qui a TiL cerco di parlarvi dell’altra faccia della medaglia.

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