di Federico Pozzi
Nessun paese al mondo ha raggiunto l’uguaglianza di genere. Nessuno. Secondo uno studio del World Economic Forum sul Global Gender Gap Index, che prende in considerazione 149 paesi, c’è un 32% di gender gap tra uomini e donne. Gli ambiti presi in considerazione sono le differenze di opportunità economiche, diritto allo studio e alla salute e potere politico tra uomini e donne.
Come calcolare il gender gap
L’indice è disegnato per misurare le differenze di risorse e opportunità tra i due sessi, non le opportunità delle donne a livello assoluto. La differenza è sostanziale perché questo indice tiene conto dei diversi livelli di sviluppo dei vari paesi considerati. Il gender gap a livello economico include le differenze di salari per lavori simili, il tasso di partecipazione al lavoro e la presenza di donne in posizione prestigiose. Il gap in ambito di potere politico invece è calcolato come rapporto tra donne in politica sul numero dei politici.
Differenze tra paesi e ambiti
I dati ovviamente sono diversi tra paese e paese e tra i vari ambiti considerati. Il primo paese per pari opportunità di genere è l’Islanda, con un gender gap generale del 16%. Fanalino di coda lo Yemen, che arriva al 50%. Sono soprattutto le differenze tra i vari aspetti presi in considerazione a dare nell’occhio. Mentre il diritto allo studio e il diritto alla salute sono ormai prossimi alla parità (rispettivamente 4,4% e 4,6% considerando tutti i paesi), il prospetto sulla parità economica e politica tra i due sessi racconta una realtà molto diseguale. A livello economico il gender gap tocca il 41,9%, mentre le differenze nel potere politico arrivano addirittura al 77,1%.
L’Italia
L’Italia è 70esima su 149 paesi subito dopo Honduras e Montenegro e appena prima della Tanzania. A livello economico siamo i peggiori in Europa. In Italia solo il 55% delle donne tra i 15 e i 64 anni lavora, per gli uomini la percentuale sale al 74%. Su 100 posizioni prestigiose, solo 27 sono ricoperte da donne, poco più di uno su quattro, mentre il salario stimato per una donna è il 57% di quello di un uomo. Altri rapporti sul divario di genere si soffermano sul peso che ha la nascita di un figlio sul reddito stimato di una donna. Nel convegno tenuto dal professor Landais in Bocconi il 17 Ottobre, risalta il crollo del reddito della donna rispetto a quello dell’uomo dopo la nascita del primo figlio. E se questa incidenza è dovuta in parte alla licenza di maternità che quasi tutti i paesi concedono, non c’è convergenza tra gli stipendi dei genitori negli anni successivi alla nascita del figlio.
Secondo lo studio di Landais, le donne hanno una perdita relativa di reddito che varia tra il 20% e il 60%. Dopo la nascita del primo figlio, le madri non rivedranno più uno stipendio pari a quello dei padri. Sul fronte delle donne in politica siamo 38esimi, mentre francesi e tedeschi sono rispettivamente al decimo e dodicesimo posto.
Differenze tra Nord e Sud
Questo, purtroppo, è un paragrafo doveroso quando si parla dei problemi socio-economici del nostro Paese. Nel Mezzogiorno lavora meno di una donna su tre, il 30%. Trentacinque punti percentuali di differenza rispetto alla media europea. La provincia di Bolzano ha il tasso più alto in Italia, il 71,5%. A pagarne le conseguenze sono soprattutto le donne meno qualificate del meridione: il tasso di partecipazione al lavoro per le donne laureate è del 63%, “solo” venti punti in meno rispetto alla media europea.
Le proposte in campo
Il problema è complesso da gestire e risente di forti influenze culturali ancor prima che economiche. In Italia trova più facilmente lavoro una donna istruita, ma a livello mondiale questo non sempre funziona: comparando maschi e femmine, i paesi più poveri sono quelli più paritari in quanto ad opportunità economiche. Tra le cause culturali, invece, risalta la visione del ruolo della madre. Secondo una ricerca dell’American Economic Association (AEA), il 61% degli italiani crede che quando una madre lavora, suo figlio soffre. Queste convinzioni vengono trasmesse all’interno delle società, ma soprattutto all’interno della famiglia di origine. Alcuni studi mostrano come le dinamiche familiari si trasmettano di generazione in generazione. Chi da figlia ha avuto una madre che è rimasta a casa, è più probabile che faccia lo stesso da genitore. L’effetto è del 4%, a parità di altre condizioni, e non cambia per diversi livelli di reddito.
Il problema si concentra quindi su come viene concepita la famiglia dai membri di una stessa comunità. Chi sacrifica il proprio lavoro quando nasce un figlio, chi deve cercare lavori più flessibili che permettano di curare gli interessi della famiglia. Dipende da chi in famiglia ci ha vissuto o ci vivrà. Da noi insomma.
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